X Ponticello
canto XXIX, vv. 37-39
Brano n.19 (01:20)
Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Così parlammo fino al primo punto [al loco primo] del ponte
roccioso dal quale si vedrebbe tutta la decima bolgia [l’altra valle]
fino al fondo [imo], se ci fosse più luce.
Corale
P.f. a 4 mani – La sua entrata è idealmente prevista dopo il verso 39, canto XXIX
Il titolo Corale, assegnato al brano del X ed ultimo ponticello, indica una composizione contrappuntistica a più parti che man mano sprofonda (con armonia, melodia e ritmo) nell’abisso sonoro delle Malebolge.
X bolgia
Alchimisti e falsari
Wolf-gang in lacrimosa nenia
Brano n.20 (05:26)
Suoni registrati e suoni elettronici – idealmente riferita a canto XXIX, v. 40-canto XXX, v. 148
Pena e Azioni: un gruppo di dannati è tormentato dalla lebbra (alchimisti e falsari dei materiali), altri corrono rabbiosi (falsari di persone), altri sono idropici (falsari di monete); altri ancora sono colti da febbri violentissime (falsari di parole).
Contrappasso: come in vita sfigurarono in vario modo la realtà, così ora sono loro stessi sfigurati da orribili malattie.
Suoni utilizzati per la composizione della X bolgia
Registrazione di suoni prodotti dalla cordiera e da altre parti, metalliche e legnose situate all’interno della cassa armonica del pianoforte; creazione di una macabra ninna nanna, per pianoforte; registrazione di suoni percussivi prodotti da vari oggetti sonori e strumenti acustici; registrazione si suoni prodotti da colpi di mano su alcune parti del corpo; registrazione di voci, maschili e femminili;
Registrazione di suoni prodotti da alcune folate di vento; suoni elettronici creati al computer con l’ausilio di software e hardware professionali.
Elementi strutturali della parte elettronica (immagine scenico-sonora)
Nella scena sonora ideata per la X bolgia, dal titolo Wolf-Gang in lacrimosa nenia, rivivono, nella falsariga di un’alchimia scenica, una quantità di suoni già espressi nelle bolge e ponticelli precedenti. Quest’ultimo brano vorrebbe essere, un sunto, una riflessione e un addio o un “all’inferno!” rivolto ai dannati da Dante e Virgilio. I suoni sono graffianti, ferrosi, sfigurano carni, membra, volti. Inoltre, l’intero brano è accompagnato da una funesta ninna nanna min. 00:49. Chiude la X bolgia un possente coro, che rappresenta, in sintesi, un profondo Lacrimosa min. 03:45. In coda a quest’ultimo brano una scia sonora, lunga e veloce, condurrà Dante e Virgilio fuori dalle Malebolge min. 04:58.
Mentre ascolti il brano musicale puoi leggere i versi del Canto XXIX e se lo desideri puoi anche consultare la parafrasi.
Canto XXIX
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’ io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva
giù ver’ lo fondo, la ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l’aere sì pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;
e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.
Canto XXIX
Quando noi fummo all’ultimo cerchio [chiostra] di Malebolge,
cosicché i suoi dannati giacenti l’uno sull’altro [conversi], potevano
apparire alla nostra vista,
lamenti di vario genere mi ferirono l’udito come saette [saettaron
me] con le punte ferrate di pietà (suscitando in me il dolore), onde
io coprii le orecchie con le mani.
Quali potrebbero essere [fora] i lamenti dei malati degli ospedali
di Valdichiana, di Maremma e della Sardegna d’estate [tra ’l luglio
e ’l settembre],
se fossosero riuniti in una fossa comune [tutti ’nsembre], tali erano
qui e tale fetore ne usciva simile a quello di membra putrefatte
[marcite membre].
Noi discendemmo l’ultimo argine del lungo scoglio, sempre [pur]
muovendoci da sinistra; ed allora la mia vista distingueva meglio
giù verso il fondo, là dove la infallibile giustizia ministra di Dio
punisce i falsari [falsador] che qui colloca [registra].
Non credo che fosse maggiore la compassione [tristizia] nel vedere
tutto il popolo di Egina infermo, quando tutta l’aria fu piena di tale
pestilenza [malizia],
a tal punto che morirono tutti gli esseri viventi [animali], fino al
più piccolo verme; dopodiché le antiche genti, secondo quanto
narrano come cosa certa [hanno per fermo] i poeti
ripopolarono l’isola [si ristorar] traendo origine dal seme delle
formiche, di quella ispirata dal vedere languire per quell’oscuro
vallone gli spiriti ammassati in mucchi di diversa forma [diverse biche].
Chi [qual] giaceva sopra il ventre, chi [qual] sulle spalle l’uno
dell’altro, e chi [qual] a carponi [carpone] si trascinava [si trasmutava]
per la triste via.
Noi andavamo, un passo dietro l’altro, senza parlare [sanza
sermone], guardando ed ascoltando i dannati [ammalati], che non
potevano sollevare le loro persone.
Io vidi due sedere appoggiati l’uno all’altro [a sé poggiati] come si
appoggiano sul focolare due teglie [tegghia a tegghia], perché si
riscaldino, coperti di croste [schianze] da capo a piedi;
e non vidi mai lavorare di striglia [menare stregghia] così
velocemente un garzone, atteso dal suo signore [segnorso], o chi mal volentieri
sta alzato di notte [vegghia] (per terminare il suo lavoro prima di andare a letto),
come ciascun dannato lavorava di graffi con le unghie [il morso
dell’unghie] su di sé per lenire il prurito [pizzicor] che non trova altro
soccorso;
così le loro unghie raschiavano [traevan giù] le croste [la scabbia],
come il coltello raschia le squame [scaglie] della scardova o di un
altro pesce che le abbia più larghe.