La Divina Commedia come un Romanzo

I 100 canti della Divina Commedia sono riassunti in questa sezione nei termini della loro essenziale trama. Avvenimenti, personaggi, luoghi, spazi, temi, emergono dal testo nella loro essenziale successione. Lo scopo è offrire una lettura continua in forma di prosa dell’opera dantesca, per comprenderne la struttura e lo svolgersi dell’intreccio. Questa la ragione del titolo, perché, come in un romanzo, la narrazione si svolge seguendo un inizio, uno svolgimento e una conclusione. Da un principio orribile a un fine lieto, come in una Commedia.

Buona lettura!

Inferno

Canto I

Dante nella selva selvaggia

A 35 anni di età Dante si ritrova in una selva oscura senza rendersi conto di come vi sia entrato. Vi trascorre una notte angosciante e piena di paura.

Col sopraggiungere del giorno vede un colle illuminato dai raggi del sole e si avvia per salire sulla sua cima.

Ma ecco che appaiono davanti a lui tre fiere, una lince, un leone e una lupa che in successione di tempo gli impediscono di avanzare, per cui egli, impaurito, retrocede di nuovo verso il basso, nella selva.

Scendendo Dante vede un’ombra silenziosa a cui si rivolge con un grido, per chiedere aiuto, non sapendo se sia un uomo o un’anima. L’ombra comincia a parlare e rivela di essere Virgilio, lo spirito del grande poeta latino, suscitando una grande gioia e una profonda ammirazione in Dante che chiede come superare l’ultima delle tre bestie che gli impedisce il cammino, la lupa. 

Per raggiungere il colle della salvezza, spiega Virgilio, è necessario intraprendere un viaggio diverso perché la lupa uccide chiunque le si ponga dinanzi anche se un giorno arriverà il veltro, un cane da caccia, che la getterà nell’Inferno, luogo da cui è venuta.

Virgilio comunica a Dante che sarà la sua guida nel percorso di salvezza e gli mostrerà il mondo dell’Inferno, sede dei dannati per l’eternità e del Purgatorio, sede dei penitenti in attesa del Paradiso, per poi affidarlo a Beatrice che lo condurrà nel Regno dei cieli.

Canto II

L’intervento divino

Dante è con Virgilio lungo la strada che lo conduce alla porta dell’Inferno e chiede aiuto alle muse perché lo aiutino a ricordare ciò che ha visto durante il suo viaggio oltremondano.

Dante pensa con preoccupazione a quel che lo attende, ritenendo di non essere all’altezza di tanta impresa, considerando che Dio aveva affidato tale compito ad un grande eroe come Enea e ad un grande santo come san Paolo. Teme perciò che il suo viaggio sia folle e vorrebbe rinunciare a seguire Virgilio.

Questi rimprovera al poeta la sua viltà e gli rivela l’incontro che, nel Limbo, ha avuto con l’anima beata di Beatrice, scesa dal suo seggio in Paradiso proprio per chiedere a lui di aiutarlo nel suo percorso di salvezza.

Virgilio racconta che la presenza di Beatrice nel Limbo, è voluta dalla pietà di Maria Vergine che ha incaricato santa Lucia, particolarmente venerata da Dante, di soccorrere il poeta, perduto nella selva del peccato; santa Lucia a sua volta si è rivolta a Beatrice perché si prenda cura dell’uomo che tanto l’ha amata.

Virgilio esorta Dante a vincere le sue resistenze ora che sa che tre donne benedette in Paradiso hanno a cuore la sua anima. Immediata la risposta di Dante che, pienamente rassicurato, segue Virgilio nel viaggio alla volta dell’Inferno.

Canto III

L’ingresso nell’Inferno 

I due pellegrini, Virgilio e Dante, nella sera di venerdi santo (8 aprile), giungono alla porta dell’Inferno alla cui sommità un’epigrafe avverte che l’anima di chi oltrepasserà quella soglia perderà ogni speranza di salvezza. Di fronte a queste parole Virgilio conforta Dante, offrendogli la sua mano e esortandolo a fare il suo ingresso nell’Inferno.

Superata la porta giungono alle orecchie di Dante sospiri, pianti e lamenti, voci incomprensibili, che creano angoscia nel poeta. Virgilio spiega che questi suoni terribili sono emessi dai primi dannati dell’Inferno, gli ignavi, che in vita mantennero sempre una pigra neutralità, senza schierarsi né col bene né col male. Ora risiedono nel Vestibolo luogo che divide la porta dell’Inferno dal fiume Acheronte e sono mescolati agli angeli che, al momento della ribellione di Lucifero, non vollero né essere con Dio, né contro Dio.

Dante vede che gli ignavi sono obbligati a correre dietro ad un vessillo senza insegne, che gira velocissimo su se stesso, pungolati da mosconi e vespe che ne rigano il volto di sangue, raccolto a terra da vermi repellenti. Fra gli ignavi Dante crede di riconoscerne uno (papa Celestino V?) che però non nomina.

Superato il numeroso gruppo degli ignavi, i due pellegrini giungono sulla riva di un grande fiume, l’Acheronte, dove gli spiriti dei dannati, spinti dalla giustizia divina, si ammassano in attesa di essere trasportati aldilà del fiume dal minaccioso traghettatore e demone Caronte che sopraggiunge a bordo della sua barca. Questi, vedendo fra i dannati il poeta, uomo ancora in vita, gli intima di andarsene, anche perché questa non sarà la sua destinazione finale dopo la morte. Ma Virgilio lo induce al silenzio, rivelandogli che a volere l’ingresso del poeta nell’oltretomba è la volontà divina a cui nessuno, neppure lui, può opporsi.

Si smorza così l’ira di Caronte che riprende il suo ruolo di traghettatore, raccogliendo nel suo barcone i dannati e battendoli col remo. Mentre questi vanno verso l’altra riva del fiume, un’altra massa di peccatori si è radunata nel posto lasciato vuoto dai primi. A questo punto un terremoto violentissimo scuote la terra e Dante perde i sensi.

Canto IV

L’incontro con gli spiriti magni

Dante si desta al rumore di un fortissimo tuono e scopre di trovarsi oltre il fiume Acheronte. Egli tuttavia, a causa della profonda oscurità, non riesce a scorgere niente se non il pallore di Virgilio che lo invita a seguirlo. Il poeta latino rivela di conoscere bene le anime relegate in quel luogo, nel primo cerchio dell’Inferno, dal momento che egli stesso appartiene alla schiera di quei dannati.

Dante e Virgilio fanno ingresso nel Limbo, luogo nel quale Dante ode lamentosi sospiri. Virgilio spiega che in questo luogo risiedono le ombre di coloro che non commisero alcun peccato, se non quello di non aver ricevuto, senza colpa, il battesimo, o come pagani, di non aver conosciuto il Dio cristiano. La loro punizione consiste nel provare il desiderio di vedere il Paradiso, desiderio eternamente inappagato. Mai nessuna di queste anime virtuose è uscita dal Limbo se non coloro che Cristo trionfante trasse dopo la sua resurrezione per portarli in Paradiso (tra questi Adamo e i grandi patriarchi della Bibbia).

Alcune anime tuttavia sono illuminate da una luce splendente e Virgilio spiega che si tratta di coloro che in vita meritarono, per le loro opere, tanta fama da giustificare, anche nell’Inferno, un riconoscimento di distinzione. Tra queste: il grande poeta greco Omero, e i poeti latini Orazio, Ovidio e Lucano. A loro si uniscono Dante e Virgilio.

I due pellegrini, accompagnati dal nobile gruppo di antichi poeti, raggiungono un castello avvolto in un alone di luce e cinto da un fiume e da sette ordini di mura: il nobile castello. Vi entrano raggiungendo un prato verde dove si muovono con dignità gli spiriti magni. Dante ha modo di riconoscere i grandi personaggi dell’antica Roma, i grandi filosofi dell’antica Grecia, primo fra tutti Aristotele seguito da Socrate e Platone, i medici, i matematici, gli scienziati.

Abbandonata la virtuosa compagnia, Dante e Virgilio riprendono il loro cammino verso il secondo cerchio.

Canto V

Il canto di Paolo e Francesca

Dante e Virgilio lasciano il Limbo e fanno ingresso nel II cerchio incontrando sulla sua soglia Minosse, il demone e giudice infernale che decide la colpa dei dannati avvolgendo intorno al proprio corpo la sua coda mostruosa tante volte quanti sono i cerchi a cui i dannati sono destinati per l’eternità. Accortosi di Dante vivo, il mostro lo aggredisce verbalmente, ammonendolo che facile può essere entrare nell’Inferno ma non altrettanto facile uscirne. Virgilio interviene zittendo il demone e rivelandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio.

I due pellegrini, superato Minosse, giungono ad un luogo avvolto dall’oscurità dove incontrano un primo gruppo di peccatori incontinenti, i lussuriosi, che sono sbattuti in aria violentemente da una bufera di vento fino ad una frana che li costringe indietro, in un andare e tornare senza ragione.

Una lunga fila di questi peccatori si presenta agli occhi di Dante che domanda notizie di loro al suo maestro. Virgilio lo accontenta indicandogli i personaggi più noti, tra i quali Semiramide, Didone, Cleopatra ed Elena fra le donne, Achille, Paride e Tristano fra gli uomini.

Nella lunga fila di lussuriosi due anime abbracciate richiamano l’attenzione di Dante che chiede a Virgilio di parlare con loro. Virgilio dà il suo assenso: potrà parlarci quando passerà vicino a loro. Al richiamo di Dante, affettuoso e comprensivo della sofferenza delle due anime, risponde altrettanto affettuosamente l’anima della donna che, rivelando il luogo di nascita, permette al poeta di riconoscere il lei Francesca da Rimini, sposa di Gianciotto Malatesta e cognata di Paolo. La donna narra che l’identità di sentimenti, di gusti, di atteggiamenti fece scattare tra lei e Paolo un amore “cortese”, che rimase tale finché i due non furono travolti da una passione sconvolgente e furono uccisi dal marito tradito, senza avere il tempo di pentirsi. E l’anima del marito è attesa nella Caina, zona più bassa dell’Inferno, dove sono puniti i traditori dei parenti. 

Dante chiede tuttavia cosa provocò nei due amanti il passaggio da un sentimento non colpevole ad una passione peccaminosa. Francesca risponde che è doloroso per lei ricordare quei momenti della vita trascorsa, ma rivela ugualmente che la colpa fu di un libro, quello che narrava dell’amore tra Lancillotto e Ginevra e che lei e Paolo erano soliti leggere con grande emozione in una sala del castello. Un giorno, dopo la lettura del bacio che aveva suggellato l’amore dei due amanti, anche Paolo, travolto dalla passione, aveva baciato Francesca, dando inizio alla loro passione incontrollata. Mentre Francesca racconta, Paolo, fino allora in silenzio, prorompe nel pianto. Preso da una profonda pietà Dante sviene.

Canto VI

L’incontro con Ciacco

Risvegliatosi dallo svenimento, Dante si ritrova nel III cerchio, dove incontra il secondo gruppo di incontinenti, i golosi, immersi in una palude battuta da una pioggia continua, mista a ghiaccio e terra che forma una orribile poltiglia maleodorante. I dannati provano a cercare riparo dalla pioggia, maledicendola, mentre Cerbero, il mostro a tre teste, ringhia sopra di loro come un cane. Vedendo i due pellegrini, il terribile demone si avventa contro di loro ma Virgilio ne frena l’attacco scagliando nelle sue tre gole una manciata di fango.

Mentre i due viandanti attraversano la palude melmosa, camminando sulle anime che giacciono distese, una di loro si solleva a sedere e, rivolgendosi a Dante, chiede se la riconosce. Il poeta non può tuttavia distinguere i suoi lineamenti, tanto sono deturpati dalla pena. L’anima dichiara di essere Ciacco, cittadino di Firenze, come Dante.

Il poeta prova una profonda amarezza nel vedere Ciacco così ridotto ma gli pone tre domande in merito al destino della loro comune città: a che punto giungeranno le discordie alimentate dalle opposte fazioni; se esistono ancora cittadini che possono essere definiti giusti; perché tanta ostilità e tanta cattiveria. Ciacco profetizza la rissa tra i Bianchi e i Neri che vedrà prevalere i secondi che cacceranno i Bianchi da Firenze; alla seconda domanda risponde che pochi sono i giusti e non sono ascoltati, sopraffatti dalla superbia, dall’invidia e dall’avarizia che dominano la città (risposta alla terza domanda).

Virgilio prende la parola e spiega a Dante che Ciacco non potrà più alzarsi dalla fanghiglia disgustosa fino al giorno del Giudizio Universale, quando tutte le anime si rivestiranno del corpo avuto in vita e tutti i dannati, nella pienezza delle proprie membra, vedranno i loro dolori crescere per l’eternità. Dante e Virgilio si dirigono poi verso il IV cerchio.

Canto VII

Dal disordine della cupidigia all’ordine della Fortuna

Passati nel IV cerchio i due pellegrini si trovano di fronte a una nuova figura infernale, custode del luogo: è Pluto, mostro dall’aspetto di lupo, che pronuncia contro di loro parole incomprensibili, dominato da una irrefrenabile violenza rabbiosa. Ma Virgilio, ancora una volta, interviene, ricordandogli la vittoria dell’arcangelo Gabriele su Lucifero e lo zittisce.

Nel cerchio i dannati si presentano in grande moltitudine e avanzano divisi in due schiere da direzioni opposte, spingendo immensi macigni e inveendo gli uni contro gli altri.

Virgilio spiega che sono i peccatori di avarizia e di prodigalità, colpevoli di non aver utilizzato in vita le ricchezze in giusta misura, chi trattenendole troppo, chi sperperandole all’eccesso. Tra essi Dante riconosce chierici e Virgilio conferma trattarsi di papi e cardinali. Il poeta latino aggiunge che tutti i denari la cui sorte è legata ai capricci della Fortuna sono destinati a non durare nel tempo.

Virgilio spiega a Dante cosa sia questa Fortuna: come esistono le intelligenze angeliche, osserva il poeta latino, che governano i cieli del Paradiso, così la Fortuna è una intelligenza voluta da Dio per amministrare le ricchezze materiali. Nessun uomo può pensare di contrastarne i voleri e le decisioni.

Superato il cerchio, i due pellegrini giungono presso una fonte che versa la sua scura acqua in un lago, la palude Stigia, dove sono immersi dannati che si colpiscono, si mordono, si sbranano a vicenda. Sono gli iracondi che giacciono o sotto la superficie della palude o spinti sul fondo. Girando intorno alla palude, i due giungono ai piedi di una torre.

Canto VIII

Il canto dell’ira

Sulla torre Dante vede brillare un segnale luminoso cui risponde un’altra luce proveniente da un’altra torre, posta più lontano: Virgilio spiega che le fiammelle avvertono dell’arrivo di Flegias, demone traghettatore della palude Stigia che sopraggiunge rapidissimo sulla sua barca; Flegias minaccia Dante, confondendolo per un dannato, ma Virgilio lo zittisce, obbligandolo a trasportarli sull’altra sponda della palude.

La barca di Flegias con i due pellegrini a bordo sta attraversando la palude quando compare dal fango un dannato, riconosciuto da Dante come Filippo Argenti, fiorentino noto per la sua violenza, col quale il poeta ha un forte scontro. Virgilio pronuncia una seria ammonizione rivolta a tutti coloro che in vita manifestano atteggiamenti di violenza e supremo orgoglio e poi finiscono nell’Inferno immersi in un fango schifoso. Filippo Argenti viene poi aggredito nella palude da altri dannati che ne fanno strazio.

Dalla barca di Flegias i due pellegrini vedono in lontananza la città di Dite da cui provengono grida e lamenti e le cui mura e torri sono rosse e roventi per il fuoco che proviene dall’interno. Flegias li accompagna fino all’ingresso.

Dante, volgendo lo sguardo in alto, scorge mille diavoli che lo minacciano. Virgilio decide di parlamentare con i demoni per chiedere loro di farli entrare, ma questi rifiutano e chiudono la porta della città in faccia ai due pellegrini. Virgilio rassicura Dante annunciando l’arrivo di un messaggero divino che permetterà loro di proseguire il viaggio.

Canto IX

Il difficile ingresso nella città di Dite

Dante è impaurito per la situazione di incertezza che si è creata di fronte alle mura della città di Dite e chiede a Virgilio se mai sia sceso in passato così in basso nell’Inferno. Il poeta latino risponde che è successo in occasione di un suo viaggio fino alla Giudecca, per trarre fuori lo spirito di un traditore e che quindi conosce molto bene la strada.

Gli occhi di Dante sono attratti ora dalla vista delle tre mitiche Erinni o Furie (Megera, Aletto e Tesifone), gronde di sangue e con serpenti al posto dei capelli, che si lacerano il petto e invocano Medusa affinché, col suo sguardo, pietrifichi il pellegrino. Virgilio esorta Dante a chiudere gli occhi e gli pone le mani sul viso per nasconderlo.

Adesso un gran rumore proviene dalla palude: Virgilio permette a Dante di aprire gli occhi e di guardare il messaggero divino che proviene velocissimo dalla palude, senza sfiorare l’acqua, mentre gli iracondi si allontanano al suo passaggio. Il messo giunge presso la porta della città di Dite e rimprovera aspramente i diavoli per la loro tracotanza, costringendoli ad aprire i battenti, ritornando poi da dove era venuto. I due pellegrini entrano in città.

Una volta all’interno, Dante scopre di trovarsi in una vasta pianura sulla quale si stagliano sepolcri aperti e infuocati da cui provengono miseri lamenti. Virgilio spiega che lì giacciono gli eresiarchi, fondatori e capi di eresie contrarie ai canoni della religione cristiana, condannati a bruciare, più o meno intensamente, in base alla gravità della ideologia perseguita.

Canto X

Dante e Farinata degli Uberti

I due pellegrini si avviano attraverso uno stretto sentiero posto tra le mura della città di Dite e i luoghi della pena degli eretici. Dante chiede di poter vedere le anime di questi dannati, visto che sono poste dentro tombe dai coperchi alzati. Virgilio risponde che i sepolcri verranno chiusi quando l’anima si ricongiungerà con il corpo, dopo il Giudizio Universale. Aggiunge poi che in quei terribili loculi giacciono i seguaci di Epicuro.

Una voce si leva imponendosi sui lamenti delle anime e si rivolge a Dante di cui ha riconosciuto l’accento toscano. È la voce di Farinata degli Uberti, seguace del partito ghibellino, che emerge con tono sprezzante dal sepolcro, mostrandosi dalla cintola in su. Farinata chiede chi fossero gli avi di Dante e, alla risposta del poeta, il dannato osserva come fossero stati suoi nemici e fossero stati cacciati da Firenze dai membri del suo partito. Dante polemicamente ribatte che i guelfi suoi avi erano comunque riusciti a rientrare in città mentre i ghibellini erano stati alla fine esiliati per sempre. 

Compare ora, all’improvviso, vicino a Farinata la voce di un’altra anima che si mostra solo col viso e si rivolge a Dante con tono accorato, chiedendo notizie di suo figlio e perché non sia con lui. Il poeta riconosce nel dannato l’anima di Cavalcante de’ Cavalcanti e comprende che sta parlando del figlio Guido, suo grande amico. Nel modo di rispondere, Dante allarma Cavalcante che crede che Guido sia morto e, terribilmente addolorato, si lascia cadere nella tomba senza più riemergere.

Farinata, incurante del dialogo tra Cavalcante e Dante, riprende il discorso interrotto poco prima e rivela quanto dolore provochi in lui il fatto che i suoi avi non abbiano potuto far rientro in Firenze. Ma anche Dante entro poco tempo saprà quanto doloroso sia l’esilio. Farinata chiede poi perché il popolo di Firenze sia ancora così feroce contro la sua famiglia, lui che fu l’unico a impedire la distruzione della città da parte dei Senesi, dopo la vittoria ghibellina di Montaperti.

Dante chiede ancora a Farinata di sciogliere i suoi dubbi su come i dannati vedano il presente e il futuro: il ghibellino risponde che essi conoscono in effetti il futuro, ma, quando questo si avvicina, impallidisce e si spegne. Questa capacità non avrà più senso quando il futuro non esisterà più, cioè dopo il Giudizio Universale. Dante prega poi Farinata di riferire a Cavalcante che il figlio è ancora vivo e che, se ha indugiato a rispondere, lo ha fatto solo perché preso dai suoi dubbi.

Il poeta chiede infine a Farinata chi sono gli altri eretici, puniti in quel cerchio. Il dannato elenca tra i tanti l’imperatore Federico II di Svevia e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna, dopodiché scompare nella tomba. Dante è rimasto turbato dalla profezia dell’esilio enunciata da Farinata ma Virgilio lo conforta annunciandogli che solo dopo l’incontro con Beatrice in Paradiso conoscerà il destino che lo attende.

Canto XI

Ordine razionale nel caos dell’Inferno

Dante e Virgilio giungono su una rovina di rocce che conduce al VII cerchio da cui si leva un odore nauseabondo; sono costretti ad arretrare fino al sepolcro di un altro eretico, papa Anastasio II, dove cercano di abituare l’olfatto al nuovo ambiente che li attende.

Virgilio approfitta della breve sosta per spiegare a Dante l’ordinamento dell’Inferno e rivela come al di sotto della città di Dite ci siano tre cerchi dove sono puniti i peccati di malizia. Il primo, ovvero il VII cerchio, diviso in tre gironi, è riservato ai violenti contro il prossimo, contro se stessi, contro Dio. Nel secondo, ovvero nell’VIII cerchio, sono puniti i peccatori di frode contro chi non si fida, mentre nel terzo, il IX cerchio, sono dannati i responsabili di frode contro chi si fida, il peccato più grave che coincide col tradimento.

Dante chiede allora che valore hanno i peccati puniti al di fuori della città di Dite, ovvero nei primi cerchi, dove risiedono lussuriosi, golosi, avari e prodighi. Virgilio risponde che si tratta di dannati che hanno peccato di incontinenza, macchiandosi di colpe meno gravi rispetto a quelle sopra enunciate.

Il poeta chiede infine a Virgilio perché l’usura sia così offensiva nei confronti di Dio, e il poeta latino spiega che l’usuraio disprezza il lavoro e l’operosità frutto dell’intelletto e dono del cielo, perché si limita a sfruttare le capacità degli altri e a guadagnare su quelle.

Canto XII

Il cerchio dei violenti: tiranni e predoni

I due pellegrini scendono lungo le rovine che conducono al VII cerchio, al di sopra delle quali troneggia il mostruoso Minotauro che si presenta ai due con tutta la sua ferocia e le sue minacce, ma viene allontanato dalle parole di Virgilio.

Il poeta latino spiega a Dante l’origine di quella rovina su cui è apparso il Minotauro e la riconduce al tempo della discesa di Cristo nel Limbo, quando un fortissimo terremoto scosse l’Inferno.

Dante e Virgilio, nel VII cerchio, raggiungono il Flegetonte, fiume di sangue bollente, dove sono immersi i violenti, lungo la cui sponda, vicino alla parete, corrono i centauri armati di arco e frecce. Inizialmente essi minacciano i due viandanti, poi Virgilio ne attenua l’aggressività parlando con alcuni di loro. I centauri a migliaia, intanto, colpiscono con i loro dardi i dannati che osano emergere dalle acque.

Parlando con Chirone che si mostra ostile a Dante con il suo arco, Virgilio spiega che il proprio compito è mostrare l’Inferno a quell’uomo ancora vivo, e gli chiede di scegliere uno dei suoi compagni per portarlo in groppa e permettergli di superare il fiume. Chirone incarica Nesso.

Nesso trasporta Dante e Virgilio oltre il Flegetonte, permettendo loro di vedere i violenti immersi nelle acque, chi fino alle ciglia, chi fino alla gola, chi fino al petto; mostra poi il punto più profondo dove sono puniti i tiranni.

Canto XIII

Il canto di Pier delle Vigne

Oltrepassato il Flegetonte Dante e Virgilio si addentrano in una orrida selva, priva di qualsiasi sentiero, con arbusti e foglie nere, dove i rami sono contorti e pieni di spine velenose. Sugli alberi fanno il loro nido le mostruose arpie e dagli alberi si odono lamenti e grida di cui non si comprende la provenienza. Sono arrivati nel II girone del VII cerchio.

Dante è disorientato: Virgilio lo invita a spezzare il ramo di uno sterpo, il poeta obbedisce e da questo esce subito sangue scuro accompagnato da parole che lamentano la mancanza di pietà di chi ha commesso tanto scempio. Virgilio risponde a quella voce che, non per malanimo, ma per mostrare al suo discepolo la pena cui sono costretti i dannati imprigionati negli arbusti, lo ha dovuto spingere ad agire in quel modo. Poi invita l’anima a rivelare la sua identità e a raccontare la sua vicenda cosicché Dante potrà riferirla agli uomini, quando farà ritorno nel mondo dei vivi.

Lo spirito (Pier delle Vigne), rivela di essere stato il consigliere dell’imperatore Federico II e di aver raggiunto una posizione di grande prestigio presso la sua corte. Ma tale prestigio era stato causa di terribili invidie da parte dei cortigiani, che lo hanno messo in cattiva luce agli occhi dell’imperatore, fino a farlo accusare di tradimento. Pier delle Vigne, che in realtà non ha mai ingannato la fiducia dell’imperatore, per il dolore si uccide, dannando così la sua anima per l’eternità.

Virgilio chiede in che modo lo spirito si trasformi in sterpi e se mai qualcuno sia riuscito a fuoriuscire dai rami; il dannato risponde che quando un uomo si suicida la sua anima viene condotta davanti al giudice infernale Minosse che la destina al VII cerchio, dove viene scagliata, e dove, cadendo in un punto qualsiasi del suolo, germoglia e si trasforma in pianta. Le mostruose arpie nidificano sui suoi rami, cibandosi delle foglie e procurando ulteriori sofferenze al dannato. Dopo il Giudizio Universale il corpo non si riunirà mai più all’anima, ma penderà per l’eternità dai rami di quella selva.

Il colloquio con Pier delle Vigne è interrotto improvvisamente dal rumore prodotto dalla corsa affannosa di due anime, nude e piene di graffi, inseguite da nere cagne fameliche. Una di queste si nasconde in un cespuglio, spezzando rami e arbusti, ma viene raggiunta dalle bestie che la fanno a pezzi. L’anima imprigionata nella pianta, che piange lo scempio dei suoi rami, rivela che il dannato straziato dalle cagne è uno scialacquatore, un dissipatore delle proprie ricchezze, ben noto a Dante.

Infine lo sterpo invita i due pellegrini a raccogliere le sue fronde, sparse per la selva, ai suoi piedi e rivela di essere stato un cittadino fiorentino e di essersi suicidato nella propria casa.

Canto XIV

Il terzo girone dei violenti: i bestemmiatori

I due pellegrini entrano ora nel terzo girone del VII cerchio, uno spoglio terreno di sabbia dove giacciono anime ora in posizione supina (i bestemmiatori), ora sedute (gli usurai), e dove altre camminano senza mai fermarsi (i sodomiti). Tutti sono colpiti da una violenta ed eterna pioggia di fuoco che infiamma anche la terra.

Tra i bestemmiatori giace Capaneo che sfida con superbia il fuoco di Dio; Virgilio spiega come lui sia stato uno dei sette re che assediarono l’antica Tebe in Grecia e che si ribellò alla potenza degli dei.

Dante e Virgilio raggiungono il Flegetonte, il rovente fiume di sangue, nelle cui acque si spengono le piogge di fuoco.

Il poeta latino ora rivela a Dante l’origine dei fiumi infernali: nell’isola di Creta, nel mar Egeo, si trova una gran montagna al cui interno risiede un vecchio con la testa d’oro, petto e braccia d’argento, bacino di rame, gambe e piede sinistro di ferro, piede destro di terracotta. Tutto il suo corpo è segnato da fessure e piccole aperture da cui sgorgano, eternamente, le lacrime che confluiscono ai suoi piedi, forano la roccia e diventano un corso d’acqua che, giunto all’Inferno, forma tutti i fiumi dell’orrido abisso.

Dante chiede ancora dove si trovi il fiume Lete e Virgilio risponde che la sua fonte si trova lontano dalla voragine infernale, sulla cima della montagna del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre e nelle sue acque si bagnano gli spiriti ormai puri per dimenticare i loro trascorsi peccati.

Canto XV

Il canto di Brunetto Latini

Dante e Virgilio procedono lungo uno degli argini del fiume Flegetonte i cui vapori li proteggono dalla pioggia di fuoco, quando incontrano una schiera di anime (i sodomiti) che, avanzando, nota, seppur con fatica, i due pellegrini. 

Uno dei dannati esprime la sua sorpresa alla vista di Dante che riconosce come suo antico allievo e il poeta a sua volta, pur nel volto trasfigurato dal fuoco, ritrova lo spirito del suo maestro Brunetto Latini. Dante prega il dannato di fermarsi un attimo per parlare con lui ma Brunetto invita il poeta ad accompagnarlo nel suo camminare, altrimenti la sosta gli potrebbe costare oltre cento anni, senza riparo, sotto la pioggia di fuoco. Dante spiega al suo maestro perché si trova vivo nell’Inferno e il senso del suo viaggio.

Felice di queste notizie, Brunetto si addolora solo di non poter seguire, come aveva fatto da vivo, il percorso politico e artistico del poeta, così favorito dall’influsso delle stelle. Ma aggiunge che Dante dovrà guardarsi dal nuovo popolo fiorentino, nato dalle bestie fiesolane, scese dalla collina per portare invidia, avarizia e superbia nel tessuto della città. Il poeta dovrà subire le conseguenze degli odi dei Bianchi e dei Neri, che lo costringeranno all’esilio, anche se le due fazioni non potranno avere ragione di un uomo come lui, erede della purezza degli antichi romani.

Le sagge parole di Brunetto rievocano in Dante l’insegnamento accorto e assennato ricevuto da questo suo maestro e per sempre onorerà con affetto la sua memoria. Quanto poi al preannuncio del suo futuro allontanamento da Firenze, egli si sente pronto a superare con coraggio ogni ostacolo. Il senso di questo colloquio è colto con piacere da Virgilio che invita il poeta a non dimenticarlo mai.

Su richiesta di Dante, Brunetto indica i nomi dei suoi compagni di pena, tra i quali figurano chierici e uomini di lettere; poi il dannato deve interrompersi alla vista di una nuova schiera di sodomiti che si avvicinano. Allora egli si accomiata dal poeta raccomandando all’antico scolaro di studiare ancora la sua opera, il Tesoretto, che gli ha procurato grande fama e che renderà il suo nome eterno fra gli uomini.

Canto XVI

Un dialogo fra concittadini

I due pellegrini proseguono il loro cammino sul sabbione ardente, in direzione del fiume Flegetonte, quando vedono tre anime, coperte di piaghe e ferite provocate dal fuoco, staccarsi dalla schiera dei sodomiti e dirigersi verso di loro. Virgilio invita Dante a fermarsi per parlare con quelle, in quanto degne di rispetto, ed esse, per non interrompere il loro eterno procedere, cominciano a muoversi in cerchio.

La prima delle tre si rivolge a Dante invitandolo a presentarsi a loro, che di tante buone azioni sono state autrici in vita. Il poeta, riconosciute le anime dei suoi concittadini, desidererebbe abbracciarle se non fosse per il fuoco che li divide; la loro pena provoca in lui, che ha conosciuto il loro valore e la loro dignità, grande dolore.

Uno dei tre spiriti chiede a Dante notizie di Firenze e soprattutto se ancora virtù e rispetto siano presenti in città. Il poeta risponde che nuova gente proveniente dalla campagna ha portato la corruzione tra il popolo, interessato adesso solo ai falsi guadagni e ad effimere ricchezze. I tre sono grati a Dante della sua attenzione e si raccomandano a lui di ricordarli fra la loro gente al momento del suo ritorno nel mondo dei vivi. Le anime rompono il cerchio e si allontanano velocissime.

I due pellegrini giungono poi al Flegetonte che con grande frastuono si getta in un profondo burrone, apparentemente impossibile da superare. Virgilio prende allora la corda che cinge la veste di Dante e la lancia nel vuoto. Poco dopo il poeta scorge un’ombra gigantesca che si avvicina dal basso volando verso di loro.

Canto XVII

Verso una nuova dimensione dell’Inferno

L’ombra gigantesca presentata nel canto precedente è quella del mostro Gerione, feroce animale dalla lunga coda acuminata. Virgilio lo esorta ad avvicinarsi al bordo del baratro e il mostro obbedisce. Gerione ha volto di uomo, corpo di serpente, grandi zampe pelose piene di artigli e sulla coda una punta velenosa come quella degli scorpioni. 

Una volta raggiunto Gerione, Dante scorge poco lontano altri dannati seduti sul sabbione ardente. Virgilio invita il poeta a recarsi da loro ma dovrà farlo da solo perché lui ha l’obbligo di convincere il mostro a trasportarli oltre il baratro. Dante si avvicina ai dannati (usurai) che si servono delle mani per proteggersi dal fuoco e vede che ciascuno di loro indossa al collo una borsa con inciso lo stemma della loro famiglia. Uno di questi lo riconosce come essere vivo e lo invita ad andarsene.

Dante torna da Virgilio e vede che la sua guida è già salita sul dorso di Gerione. Il poeta terrorizzato prende posto sul corpo del mostro, con Virgilio che lo protegge dalla coda velenosa e lo abbraccia per rincuorarlo. Gerione prende il volo, nel vuoto e nel buio, compiendo larghi giri in discesa. Dante ode solo lo scrosciare in basso del Flegetonte. Alla fine scorge un luogo dove compaiono fuochi e da dove si odono lamenti. Gerione li depone a terra e si allontana velocissimo.

Canto XVIII

L’ingresso nel mondo delle Malebolge

Dante e Virgilio hanno fatto ingresso nell’VIII cerchio detto delle Malebolge, luogo infernale fatto di pietra al cui centro figura un profondissimo pozzo; tra questo e la parete si aprono dieci fosse concentriche dette bolge, unite tra loro da passaggi rocciosi, come i ponti levatoi che permettono l’ingresso nei castelli sopra i fossati che li cingono.

I due pellegrini giungono nella I bolgia dove scorgono due schiere di dannati che procedono in direzioni opposte: una lungo la parete della bolgia (i seduttori) e l’altra lungo il bordo (i ruffiani), mentre diavoli armati di frusta li sferzano senza pietà, obbligandoli a camminare velocemente.

Dante crede di riconoscere tra i ruffiani che avanzano lungo il bordo l’anima di Venedico Caccianemico che cerca di nascondersi a lui. Scoperto, il dannato rivela di essere colui che ha costretto la sorella a soddisfare le voglie di Obizzo d’Este. Aggiunge anche che con lui ci sono molti altri bolognesi. Un diavolo intanto lo colpisce con violenza ricordandogli che non può più fare mercato di donne nell’Inferno.

Dante e Virgilio salgono ora sul ponticello dal quale possono osservare meglio il fossato: tra i seduttori riconoscono un’anima che avanza con portamento regale e senza emettere lamenti. Si tratta di Giasone, il mitico eroe del vello d’oro, colui che sedusse e ingannò Isifile nell’isola di Lemno, abbandonandola incinta e che tradì l’amore di Medea.

I due pellegrini procedendo sul ponte roccioso sono giunti ora alla II bolgia dove vedono dannati che si colpiscono con le mani e soffiano, emettendo orribili rumori dalle narici. Sono gli adulatori. Dalle pareti della roccia si levano intanto miasmi disgustosi. Procedendo oltre Dante e Virgilio si rendono conto che i dannati sono immersi nello sterco e vedono uno di loro che è così avvolto negli escrementi da perdere ogni connotato umano. L’anima vorrebbe che si allontanassero ma Dante lo riconosce per Alessio Interminelli che rivela di pagare il suo atteggiamento di adulatore che in vita mai abbandonò.

L’ultimo incontro è con lo spirito della prostituta Taide, una donna coperta di sterco e con i capelli scarmigliati, che si graffia e sta chinata sulle cosce.

Canto XIX

Il canto dei simoniaci

Dante pronuncia una violenta invettiva contro i seguaci di Simon mago, i simoniaci, colpevoli di trarre guadagni dal mercato delle cose sacre, dannati nella III bolgia dell’VIII cerchio. Con Virgilio il poeta si trova sul ponticello che sovrasta quel luogo di pena dal quale, guardando in basso, scorge le pareti e il suolo disseminati di buche, dove le anime sono confitte a testa in giù, lasciando fuoriuscire solo le gambe e i piedi, sulle cui piante ardono eternamente delle piccole fiamme. I dannati, per cercare di scacciare il fuoco, muovono vorticosamente i piedi assumendo pose grottesche.

Dante chiede a Virgilio di parlare con una di esse, che presenta fiamme dal colore più acceso e il poeta latino lo accompagna da lei. Il dannato, che non può vedere Dante, lo scambia per papa Bonifacio VIII e si meraviglia che sia già lì, forse stanco per lo strazio della Chiesa di cui è responsabile. Dante gli rileva di non essere colui che crede.

Irritato, il dannato dichiara di essere Niccolò III della nobile famiglia degli Orsini, colpevole di avidità nel rendere ricchi, attraverso il suo sacro ruolo, se stesso e i suoi familiari. Con lui nella buca ci sono altri simoniaci, in attesa di essere spinti più in basso dall’arrivo di papa Bonifacio VIII e del suo successore Clemente V.

Dante si scaglia contro Niccolò III e tutti i papi simoniaci, ricordando che né Gesù né gli apostoli chiesero mai denaro in cambio dei propri servigi. Il comportamento dei papi ha rovesciato il senso della giustizia divina e ha reso la Chiesa serva degli interessi della monarchia francese, nell’adorazione dei nuovi idoli dell’oro e dell’argento.

Dante e Virgilio fanno ritorno sul ponticello che sovrasta la bolgia mentre Niccolò III, in preda all’ira e al risentimento per il discorso di Dante, scalcia con forza.

Canto XX

Tra maghi e indovini, ciarlatani dello spirito

Dante e Virgilio hanno fatto l’ingresso nella IV bolgia dell’VIII cerchio e vedono avanzare lentamente una nuova schiera di dannati che piange silenziosamente, bagnando con le lacrime il suolo. Sono gli indovini, che procedono con il volto rovesciato verso la schiena, rigando di pianto le terga e le natiche. Il poeta piange a sua volta destando l’irritazione di Virgilio.

Questi mostra a Dante tre di loro, Anfiarao, Tiresia e Arunte e poi Manto, la donna dalle lunghe trecce.

Il poeta latino narra la storia di Manto, sulla cui tomba nacque la città di Mantova, e delle terre, sottoposte al dominio dei vescovadi di Trento, Brescia e Verona, dove l’indovina si stabilì a esercitare le sue arti magiche.

Virgilio presenta altri indovini tra i quali Euripile e Calcante che indicarono agli Achei il momento adatto per attaccare Troia e poi molte donne che abbandonarono le loro opere femminili per sposare le arti della divinazione.

Canto XXI

Il canto dei barattieri

Giunti sul ponte che sovrasta la V bolgia dell’VIII cerchio, Dante e Virgilio osservano verso il basso e vedono che l’ambiente è tutto avvolto nell’oscurità. Al suolo tuttavia si distingue una distesa di pece bollente che in superficie forma continuamente grandi bolle che scoppiano e dove sono immerse le anime dei barattieri.

Virgilio improvvisamente invita Dante a nascondersi perché giunge velocissimo un diavolo che tiene per le caviglie un dannato. Grida ai suoi compagni Malebranche, celati sotto il ponte, di essere giunto da Lucca, città piena di barattieri, e getta l’anima nella pece bollente per poi tornare verso la città toscana a prenderne altri. I diavoli minacciano il dannato che vorrebbe fuoriuscire dalla pece e lo straziano coi loro uncini.

Virgilio si reca a parlamentare con i diavoli che si mostrano minacciosi, chiede di colloquiare col loro capo e di non commettere violenze ai suoi danni, perché la sua presenza in quel luogo è voluta dal cielo e loro non possono opporsi. Compare Malacoda al quale Virgilio chiede la via per superare la bolgia.

Virgilio invita ora Dante ad uscire dal suo nascondiglio ma il poeta è assai timoroso di fronte ai diavoli che minacciano di colpirlo coi loro artigli. Malacoda li calma e invita Virgilio a seguire una strada diversa per uscire da quel luogo: il ponte su cui si trovano è crollato in occasione di un terremoto dovuto alla morte del Cristo e devono prenderne un altro ancora intatto. A questo scopo ordina a dieci diavoli di scortarli sulla nuova strada.

Dante non si fida e vorrebbe proseguire il cammino soltanto con Virgilio, perché i diavoli persistono con le loro minacce e l’atteggiamento aggressivo. Ma Virgilio lo rincuora sostenendo che il loro comportamento è rivolto solo a spaventare i dannati.

Canto XXII

La seconda parte della commedia dei barattieri

Dante commenta lo sconcio segnale del diavolo Barbariccia col quale tutti i barattieri si sono messi in marcia e vede sulla superficie della pece alcuni dannati che affiorano solo col dorso, per poi riaffondare quando minaccioso Barbariccia si avvicina a loro.

Uno dei barattieri, non abbastanza veloce a tornare sotto, viene afferrato dal diavolo Barbacane pronto a scuoiarlo ma Dante chiede al dannato di narrare la sua storia: questi rivela di essere Ciampolo di Navarra, figlio di uno scialacquatore suicida, e di aver esercitato l’arte della baratteria per tutta la vita. Ciampolo viene azzannato da un altro diavolo ma poi ceduto agli uncini di Barbariccia.

Prima di finire straziato dai diavoli, Virgilio chiede a Ciampolo chi siano gli altri barattieri vicino a lui ed egli presenta frate Gomita di Gallura, esperto di inganni e Michele Zanche di Sardegna.

Ciampolo aggiunge che se Dante e Virgilio vogliono conoscere altri barattieri di origine toscana o lombarda lui li mostrerà a condizione però che i diavoli lo lascino stare e non lo aggrediscano coi loro uncini. I Malebranche a malincuore accettano ma Ciampolo ne approfitta per fuggire e dileguarsi, ingannando i demoni come in vita aveva ingannato gli uomini.

Il diavolo Calcabrina se la prende con Alichino accusandolo di esseri fatto truffare dal dannato e si azzuffa con lui finendo ambedue nella pece bollente nella quale rimangono invischiati. Gli altri diavoli cercano di farli uscire dal liquido schifoso e viscido. Dante e Virgilio ne approfittano per fuggire.

Canto XXIII

La sesta bolgia: gli ipocriti

Dante procede con Virgilio lungo l’argine della bolgia ma è spaventato per quanto successo e crede che ora i diavoli siano furiosi per l’inganno subito da Ciampolo e vogliano vendicarsi su di loro. Anche Virgilio è dello stesso parere e in effetti i due pellegrini vedono arrivare velocissimi i diavoli che intendono aggredirli. Virgilio prende su di sé Dante e con lui si cala fuori della bolgia appena prima che i diavoli si fermino, perché Dio non concede loro di lasciare il luogo infernale cui sono destinati.

I due pellegrini sul fondo della VI bolgia dell’VIII cerchio incontrano nuove schiere di dannati, gli ipocriti, che avanzano lentissimi con aria molto stanca, indossando pesanti cappe con grandi cappucci, dorate all’esterno, ma fatte di piombo all’interno.

Dante chiede a Virgilio di poter parlare con qualche anima, se tra di loro c’è qualcuna che riconosce, e due dannati si fermano desiderosi di soddisfare la sua richiesta. Vedendo che si tratta di persona viva, gli spiriti chiedono la ragione della sua presenza nell’Inferno. Dopo essersi presentato, Dante chiede ai due dannati informazioni sul loro castigo. L’anima che risponde rivela di chiamarsi Catalano e di essere stato un frate gaudente e un magistrato in Firenze, come il compagno, e che la loro pena è terribile, perché le pesanti cappe di piombo provocano in loro un dolore eterno ed eterne lacrime.

Dante improvvisamente vede in terra uno spirito crocifisso e legato a tre pali. Catalano spiega trattarsi di Caifa, il sacerdote che esortò i farisei a martirizzare il Cristo. Egli giace eternamente al suolo calpestato dagli altri dannati. Stessa pena per gli altri componenti del Sinedrio che si macchiarono delle medesime colpe.

Virgilio chiede a Catalano come lasciare la bolgia e il dannato risponde che il ponte è crollato e che loro possono calarsi lungo un pendio meno ripido e più accessibile. Malacoda dunque li aveva ingannati e Catalano osserva come caratteristica dei diavoli è la menzogna. Virgilio con Dante si allontana avvilito e arrabbiato.

Canto XXIV

Settima bolgia: i ladri sacrileghi. Primo tempo

Dante è turbato per la rivelazione di Catalano che ha denunciato la menzogna di Malacoda ma viene confortato da Virgilio.

I due pellegrini intraprendono l’ascesa della rovina di rocce per raggiungere la sommità dell’argine: la salita è difficile e affatica Dante ma Virgilio lo esorta a trovare le forze se vuole raggiungere la fama, senza la quale la vita di un uomo perde valore.

Dante e Virgilio raggiungono il ponte che sovrasta la VII bolgia dell’VIII cerchio quando Dante avverte una voce proveniente dal basso e immersa nell’oscurità. Osservando più attentamente i due pellegrini iniziano a distinguere una fossa piena di serpenti orribili tra i quali si muovono le anime dannate dei ladri, nude e in preda al terrore, con braccia e mani legate dietro la schiena e serpenti che ne cingono i fianchi.

Uno dei dannati viene morso da un serpente, dopodiché inizia a bruciare fino a divenire cenere che si raccoglie al suolo, ma subito dopo si compatta fino a trasformarsi nuovamente nella figura dell’anima originaria, pronta a riprendere in eterno la terribile metamorfosi.

Il peccatore non si nasconde a Dante e rivela di essere Vanni Fucci di Pistoia e di provare grande vergogna per lo stato in cui è costretto a vivere nell’Inferno, lui colpevole di aver rubato gli arredi sacri del duomo della sua città.

Vanni Fucci profetizza il futuro di Pistoia e la sconfitta dei Bianchi fiorentini, con la dichiarata intenzione di ferire l’animo di Dante.

Canto XXV

Settima bolgia: i ladri sacrileghi. Secondo tempo

Vanni Fucci, finito il suo discorso, bestemmia contro Dio, al che un serpente gli si attorciglia al collo strozzandolo mentre un altro gli immobilizza le braccia. Dante grida la sua invettiva contro Pistoia definita città di ladri e subito dopo vede avvicinarsi un centauro che porta su di sé un’enorme massa di serpenti e un drago che sputa fuoco all’inseguimento del ladro da punire. Il centauro è Caco anch’esso ladro sacrilego ucciso da Ercole.

Tre nuovi dannati si avvicinano a Dante, ma il poeta non li riconosce, capisce solo dalla parlata che sono fiorentini. Dante assiste ora ad una ulteriore orribile metamorfosi: un serpente a sei piedi aderisce al corpo di uno dei dannati, Agnolo Brunelleschi, e fondendosi con lui, forma una nuova creatura orribile nell’aspetto e viscida nelle forme che si allontana con andatura lenta.

Un’altra terribile scena si mostra adesso agli occhi di Dante e Virgilio: un serpente che nasconde l’anima di Buoso Donati si avventa su un dannato, il Guercio, e lo morde al ventre. Dopo una lunga e disgustosa trasformazione i due pellegrini vedono il serpente acquisire le forme umane e il dannato diventare serpente, mostrando dalla bocca la lingua biforcuta.

L’anima divenuta serpente fugge via sibilando inseguita dal serpente divenuto uomo che gli sputa. Uno solo di quei dannati non ha subito trasformazioni e Dante lo riconosce: è Puccio Sciancato.

Canto XXVI

Il canto di Ulisse

L’esordio del canto è segnato dall’apostrofe contro Firenze in cui emergono i sentimenti contrastanti del poeta espressi con addolorati toni ironici: la sua patria può vantarsi davvero della fama raggiunta, visto che tanti suoi cittadini troneggiano ora nell’Inferno e le recano l’onore che merita. Non passerà molto tempo che anche piccole città come Prato gioiranno per la sua decadenza e ciò procurerà al poeta, ormai vecchio, ancora più dolore.

Dante e Virgilio percorrono il ponte che li allontana dalla VII bolgia e raggiungono un punto dal quale, guardando in basso, scorgono migliaia di fiammelle che si muovono nell’oscurità del fondo dell’VIII bolgia. Virgilio spiega che le anime dannate sono nascoste dentro il fuoco e fasciate da esso: si tratta degli spiriti dei consiglieri fraudolenti.

Il poeta è attratto adesso da una fiamma che si divide in due punte distinte e chiede chi sia: Virgilio risponde che in quel fuoco sono celate le anime di Ulisse e Diomede che, come furono compagni nel compiere inganni, così sono uniti nel pagare la pena. Ulisse e Diomede sono dannati per l’inganno del cavallo di Troia, per quello ordito contro Achille e Deianira e per il furto del Palladio.

Dante desidera parlare con loro, ma Virgilio lo invita a tacere e si incarica di rivolgere egli stesso le domande alla fiamma.

Virgilio prega Ulisse, in virtù dei meriti che forse anche ai suoi occhi ha raggiunto con la sua poesia, di narrare le circostanze della propria morte. La fiamma si scuote e trasformandosi in una lingua che parla inizia il suo racconto. Dopo aver lasciato l’isola della maga Circe, anziché ricongiungersi agli affetti del figlio, del padre e della fedele moglie, Ulisse spiega di essere stato vinto dall’amore di conoscenza e dal desiderio di fare nuova esperienza del mondo. Con i suoi marinai si era messo in viaggio e aveva raggiunto le Colonne d’Ercole luogo oltre il quale non era consentito all’uomo navigare.

L’eroe greco di fronte all’imponderabile che lo aspetta rivolge una piccola orazione ai suoi compagni: osserva che loro, ormai vecchi dopo tante esperienze vissute, non possono più fermarsi. Gli uomini non sono fatti per vivere come bruti, ma per seguire la virtù e la conoscenza.

Con l’acceso consenso della sua ciurma, Ulisse ordina di fare rotta verso l’emisfero australe, nel mondo senza uomini, del mare immenso illuminato dalle stelle e dopo cinque mesi di navigazione raggiungono l’altissima montagna del Purgatorio. Il primo momento di gioia provocato dalla vista di quella terra si trasforma subito in dolore e morte: un terribile vento genera un vortice nel mare, inghiotte la fragile nave e le acque seppelliscono gli uomini e i loro sogni, per sempre.

Canto XXVII

Una serie di frodi e di equivoci

La fiamma di Ulisse e Diomede si è appena allontanata, quando un’altra fiammella si avvicina ai due pellegrini, col desiderio di parlare loro, emettendo inizialmente suoni indistinti. Il fuoco nasconde l’anima di Guido da Montefeltro che vuole sapere da Dante se la sua patria, la Romagna, è ancora scossa da guerre o contrasti politici.

Dante, esortato da Virgilio, spiega che quella terra, benché da sempre sede di tiranni, è in quei tempi in pace. I da Polenta dominano Cervia, gli Ordelaffi Forlì, i Malatesta Rimini. Faenza è guidata da Maghinardo Pagani, Cesena alterna guide che rispettano la libertà ad altre che impongono la tirannide.

Ora è Dante a chiedere al dannato di raccontare la sua vita: questi acconsente, convinto che Dante non potrà mai riferire in Terra quanto confesserà, perché nessuno mai ha lasciato quei luoghi infernali, una volta entrato. Egli fu in vita un uomo astuto, a conoscenza di tutti i possibili inganni della politica. Aveva poi deciso di farsi frate per espiare i suoi peccati ma Bonifacio VIII lo aveva nuovamente obbligato a peccare. Il papa lo aveva chiamato alla sua corte pontificia in occasione della dura contesa che lo opponeva alla famiglia Colonna. Di fronte alla preoccupazione di Guido, incerto se seguire Bonifacio nelle sue azioni nefande, questi gli aveva promesso l’assoluzione anticipata per tutti i suoi peccati. Così rassicurato, Guido gli aveva offerto i suoi servigi.

Al momento della sua morte nacque una contesa fra il diavolo e san Francesco, reclamando ciascuno l’anima di Guido: l’Inferno per il primo, la salvezza per il secondo. Il comportamento di Guido con Bonifacio permise al diavolo di aver ragione e la sua anima fu portata da Minosse che la destinò all’VIII bolgia dell’VIII cerchio, condannata a bruciare eternamente.

Canto XXVIII

La bolgia nona: seminatori di scismi e di discordie

I due pellegrini raggiungono la IX bolgia dell’VIII cerchio e Dante rimane sconvolto dalla scena di violenza cui assiste, violenza che neppure nelle più cruente battaglie aveva mai avuto modo di vedere.

Il poeta scorge un dannato che avanza con un profondo taglio che seziona il suo corpo al punto che si possono osservare il cuore e lo stomaco. Si tratta di Maometto che introduce un altro peccatore, Alì, il cui volto è spaccato dalla fronte al mento. Essi sono tutti così orrendamente mutilati perché in vita seminarono discordie e divisioni. Un diavolo è colui che con la spada taglia i corpi, ma questi subito si ricompongono per essere nuovamente sezionati.

Gli spiriti dei seminatori di discordia guardano stupiti Dante vivo tra loro e Maometto esorta il poeta ad ammonire l’eretico frate Dolcino perché si prepari al futuro assalto dei suoi nemici.

Un altro dannato, Pier da Medicina, che si mostra con la gola tagliata, senza naso e con un solo orecchio, si avvicina al poeta e profetizza il tradimento del malvagio signore di Rimini ai danni di Guido del Cassero e di Angiolello da Carignano.

Dante incontra poi l’anima di Curione, compagno di Cesare, abile ingannatore con le parole, ora presentato con la lingua tagliata e Mosca dei Lamberti con le mani mozzate, colpevole di aver alimentato gravi discordie in Toscana.

L’ultimo incontro è quello più spaventoso: un dannato avanza verso Dante con la testa divisa dal corpo che porta in mano, e da quella testa si rivolge al poeta dichiarando di essere Bertran del Bornio colpevole dei gravi dissidi che separarono il re inglese Enrico II e il figlio Enrico III.

Canto XXIX

La bolgia dei falsari

Dante appare visibilmente turbato dalle visioni dei seminatori di discordie e Virgilio lo rimprovera per la sua debolezza. Tra i dannati ne figura ancora uno che si è rivolto minaccioso a Dante: è Geri del Bello, membro della sua famiglia, che accusa il poeta di non averlo vendicato dopo il suo assassinio.

I due pellegrini raggiungono adesso il ponte che sovrasta la X e ultima bolgia del cerchio VIII. Dal basso possono udire terribili lamenti e sentire il puzzo di carne marcia che emana dal suolo. Dante e Virgilio scendono dall’argine e vedono le anime dei falsari che giacciono in terra gli uni sopra gli altri, preda di terribili malattie.

Tra i peccatori scorgono due dannati che, in posizione seduta, si appoggiano l’uno sull’altro, intenti con le unghie a grattar via ferocemente le croste prodotte sul loro corpo dalla scabbia. Su richiesta di Dante, uno di essi si presenta come Griffolino d’Arezzo, punito nell’Inferno del peccato di alchimia, ma fatto bruciare sul rogo in vita come eretico da Albero da Siena.

Un altro dannato che ha ascoltato il colloquio tra Dante e Griffolino, di nome Capocchio da Siena, falsificatore di metalli, si prende ironicamente gioco dei senesi, popolo di vanitosi, e di alcuni di essi facenti parte della cosiddetta brigata spendereccia.

Canto XXX

Ancora altri falsari

Nella X bolgia Dante e Virgilio incontrano ora i falsari di persona, che corrono velocissimi animati da una rabbia infinita e azzannandosi tra loro. I primi che scorgono sono Gianni Schicchi, che in vita finse di essere Buoso Donati per approfittare di un testamento, e Mirra, che si finse un’altra donna per poter giacere col padre di cui si era invaghita.

Proseguendo i due pellegrini incontrano i falsari di moneta e tra questi mastro Adamo che giace con la pancia così gonfia a causa dell’idropisia da non potersi muovere e la bocca sempre aperta in cerca perenne di acqua. Egli è punito per aver falsificato, su incarico dei conti Guidi, i preziosi fiorini d’oro e d’argento con monete di semplice metallo.

Mastro Adamo introduce altri due dannati che giacciono distesi vicino a lui, arsi dalla febbre: sono falsari di parola e rispondono ai nomi di Putifarre che fu responsabile di false accuse verso Giuseppe e Sinone che convinse i Troiani a far entrare in città il cavallo di Troia. Tra Sinone e mastro Adamo inizia subito una rissa nei fatti e nelle parole. Il primo sferra un pugno nella pancia gonfia del secondo che risponde con un colpo al viso dell’avversario. Si scambiano poi accuse riguardo alle rispettive colpe: secondo Sinone è peggiore il reato di falsificazione di monete, mentre per mastro Adamo altrettanto grave è lo spergiuro. Per il primo è gravissima la pena della sete eterna che porta alla pancia rigonfia, per il secondo lo è quella della febbre altissima che tormenta il corpo.

Dante è preso a seguire il litigio quando viene duramente rimproverato da Virgilio, che lo accusa di perdere tempo ad ascoltare dialoghi vili. Il poeta si scusa, e rimane in silenzio.

Canto XXXI

Il passaggio al nono girone

Dante e Virgilio si apprestano a raggiungere il IX cerchio e nella penombra, dopo aver udito il forte suono di un corno, il poeta crede di vedere delle alte torri. Virgilio spiega che non si tratta di torri ma di giganti.

Dante scorge effettivamente le sagome enormi di giganti che si trovano intorno al pozzo che conduce al IX cerchio. Sono piantati nella roccia fino alla cintola e il poeta distingue il volto di uno di essi, Nembrod.

Nembrod prorompe in suoni incomprensibili e Virgilio lo invita a sfogare la sua rabbia suonando il corno che indossa a tracolla. Il poeta latino aggiunge che il gigante è adirato con se stesso perché colpevole del folle obbiettivo di voler raggiungere il cielo con la torre di Babele.

I due pellegrini avanzano sul bordo del pozzo e incontrano un altro gigante, Fialte, dall’aspetto più feroce, legato con molti giri di catena alla roccia. Esso è colpevole della ribellione contro Giove che organizzò con altri suoi pari. Il prossimo incontro, spiega Virgilio, sarà con Anteo anch’esso legato alla catena come Fialte. Questi all’improvviso si scuote con violenza provocando un terremoto così violento che Dante crede di morire.

Giunti presso Anteo, che emerge dalla roccia per molti metri, Virgilio prega il gigante di aiutarli a raggiungere il fondo del pozzo. Se obbedisce gli promette fama eterna dalla poesia di Dante. Anteo accetta e, stendendo le braccia, con l’enorme mano solleva i due pellegrini per appoggiarli sul fondo del lago ghiacciato di Cocito.

Canto XXXII

L’ingresso nella città di Lucifero

Dante chiede adesso aiuto alle muse per poter descrivere le scene terribili che lo attendono sul fondo dell’Inferno dove sono puniti i traditori.

I due pellegrini avanzano sul lago ghiacciato di Cocito, nel IX cerchio, e il poeta ode la voce di un dannato che lo invita a guardare dove cammina. Nel ghiaccio sono imprigionate le anime dei traditori dei parenti, con il volto rivolto in giù e le lacrime che colano in basso.

Dante scorge due dannati costretti nel ghiaccio e vicinissimi tra loro tanto che i loro capelli si impigliano a vicenda. Essi sollevano il volto per guardare Dante, ma così facendo, le lacrime che rigano le proprie guance si ghiacciano, chiudendo loro anche gli occhi. Un’altra anima, senza orecchie, cadute per il freddo, tenendo il volto in basso, chiede perché mai Dante si attardi nell’osservarli. Aggiunge poi che i primi due che stanno così vicini tra loro, Alessandro e Napoleone degli Alberti, sono quelli che meritano di più di stare in quella parte di Cocito detta Caina. Presenta poi altri dannati e dice di essere Camicione de’ Pazzi.

Il poeta osserva i volti resi lividi dal freddo di mille altri dannati e raggiunta la seconda zona di Cocito detta Antenora, urta col piede la testa di un peccatore, che lo rimprovera, lamentandosi per il dolore. Dante si trova ora tra i traditori della patria e alle parole del dannato che gli richiama alla mente la tragedia di Montaperti, il poeta risponde con violenza, aggredendo il peccatore per conoscere il suo nome. Questo viene rivelato da un altro dannato che lo chiama Bocca degli Abati.

Bocca, scoperta la sua identità, dichiara di non interessarsi a quanto Dante potrà dire di lui nel mondo dei vivi, ma desidera rivelare l’identità di altri traditori della patria che giacciono vicino a lui.

I due pellegrini si allontanano da Bocca quando incontrano un’altra coppia di dannati, vicinissimi tra loro con uno di essi che morde orribilmente la testa dell’altro, facendone uscire il cervello di cui si ciba. Il poeta vuole adesso conoscere i motivi di tanto odio.

Canto XXXIII

Il canto del conte Ugolino

Il dannato apparso a Dante mentre addenta il capo del suo vicino, ferma un momento il gesto orribile del suo rosicchiare e accetta di spiegare le ragioni del suo odio, anche se ciò lo porta a ricordare eventi della passata vita che gli procurano profondo dolore. Egli dice di essere il conte Ugolino e quello sotto a lui l’arcivescovo Ruggieri. Tutti sanno in Toscana i motivi per cui era stato arrestato dall’arcivescovo ma nessuno conosce i modi della sua terribile condanna a morte.

Ugolino narra come fosse stato incarcerato su ordine di Ruggieri nella torre della Muda a Pisa insieme ai suoi quattro figli. Assiste una notte in sogno ad una orrenda caccia dove lui e i suoi figli sono come il lupo e i suoi cuccioli inseguiti da cagne fameliche che li azzannano, comandate dalle famiglie ghibelline rivali. Al suo risveglio ode i propri figli chiedere del pane ma quella mattina al posto del rumore che annuncia l’arrivo del cibo avverte solo i colpi del martello che serra per loro e per sempre la porta della cella. Ugolino rimane pietrificato dal dolore e resta in silenzio mentre passa il primo giorno e la prima notte senza cibo. 

La mattina successiva Ugolino vede i volti pallidi e magri dei figli e preso da rabbia inizia a mordersi le mani. I figli, credendo che abbia compiuto quel gesto per fame, offrono il proprio corpo al padre come cibo, in un estremo atto d’amore. Ugolino allora si calma e cade in un profondo silenzio. La tragedia alla fine si compie: nel giro di cinque giorni, uno dopo l’altro, i quattro ragazzi spengono le loro vite davanti a lui. Ugolino, reso cieco dalla fame, vaga nella cella impazzito, per poi morire a sua volta. Terminato il racconto, il dannato riprende l’orrido pasto ai danni di Ruggieri, colpevole per l’eternità di tanto scempio.

Dante ne approfitta per lanciare una violenta invettiva contro la città di Pisa, il cui popolo si macchia di così efferati delitti.

I due pellegrini raggiungono la successiva zona del Cocito chiamata Tolomea, dove vedono i dannati, colpevoli di tradimento verso gli ospiti, imprigionati nel ghiaccio con il viso rivolto verso l’alto, e le lacrime che si congelano sui loro occhi.

Un dannato si rivolge a Dante pregandolo di grattargli dagli occhi le croste di ghiaccio, per avere un poco di ristoro dal dolore. Il poeta promette di farlo a condizione che lui riveli il suo nome. Il peccatore dice di chiamarsi frate Alberigo e Dante rimane stupito perché credeva che fosse ancora in vita. Il frate spiega che l’anima del traditore degli ospiti, destinata in quella zona dell’Inferno, talvolta viene separata dal corpo prima che questo sia ancora morto. Al suo posto un demonio guida le membra, mentre l’anima trova il suo posto nel Cocito. Lo stesso è accaduto per un altro dannato, Branca Doria, il cui corpo è in vita, ma l’anima giace vicino al frate.

Dante lascia il dannato senza ottemperare alla sua promessa di liberargli gli occhi dal ghiaccio delle sue lacrime e scaglia una violenta invettiva contro la città di Genova.

Canto XXXIV

E uscimmo a riveder le stelle

I due pellegrini si dirigono verso la quarta zona del Cocito, detta Giudecca. Virgilio annuncia a Dante di prepararsi a vedere Lucifero, il re dell’Inferno, ma al momento il poeta scorge solo un qualcosa che in lontananza sembra un enorme edificio. In questo luogo dell’Inferno sono puniti i traditori dei benefattori, che giacciono totalmente immersi nel ghiaccio, le cui forme si intravedono in trasparenza e in varie posizioni.

Dante infine riconosce Lucifero: il demone è conficcato nel ghiaccio da cui ne esce dalla cintola in su. Ha misure gigantesche e il suo aspetto è orribile, come orribili sono i peccati che da lui si originano. Presenta tre teste, una al centro rossa, quella sulla destra gialla, quella sulla sinistra nera. Per ogni testa ha due enormi ali come di pipistrello che sbattono continuamente e producono un vento gelido che è all’origine del ghiaccio di Cocito. Dagli occhi cadono lacrime che si mescolano alla bava sanguinosa delle sue bocche. Ognuna di queste maciulla un peccatore: quella centrale Giuda Iscariota, con quelle laterali Bruto e Cassio. 

Virgilio adesso invita Dante ad abbracciarlo e a tenersi ben stretto a lui: insieme scendono lungo il corpo di Lucifero aggrappandosi ai folti peli del demone. Una volta giunti all’altezza dei fianchi, cominciano a risalire lungo le sue gambe, al punto che Dante crede di ritornare verso l’Inferno. Poi il poeta viene deposto su una roccia.

Dante non comprende bene cosa sia accaduto: adesso vede le gambe di Lucifero rivolte vero l’alto mentre poco prima erano puntate verso il basso, non scorge più il lago di Cocito, ed è mattino mentre fino a poco prima era sera. Virgilio spiega che Dante ha appena oltrepassato il limite che divide l’emisfero boreale da quello australe, dove ora si è fermato, e si trova sull’altra faccia della sfera dove è situata la Giudecca e dove le ore del giorno appaiono rovesciate. Lucifero quando fu gettato dai cieli sulla Terra provocò un’enorme voragine, perché la terra si ritirò per non avere contatti col demone: nell’emisfero boreale confluirono tutte le terre, mentre in quello australe formarono la grande montagna del Purgatorio.

Dante e Virgilio si mettono adesso in cammino all’interno di una lunga cavità rocciosa, la natural burella, che li conduce fino in superficie. Il poeta finalmente può riveder le stelle.

Purgatorio

Canto I

L’incontro con Catone

Dante, dopo esser uscito dalla orrida cavità infernale, prova una gioia immensa nel vedere il cielo del colore dello zaffiro e la stella Venere che offre la sua luce a tutto l’Oriente. Il poeta, dopo aver distolto il proprio sguardo dagli astri, scorge vicino a sé un vecchio solitario dall’aspetto venerabile: è Catone e il suo volto, incorniciato da una barba bianca e brizzolata, è illuminato dalla luce delle stelle.

Catone scambia i due pellegrini per dannati che sono riusciti a risalire sulla superficie dall’abisso infernale e si chiede come mai nel loro caso le leggi di Dio siano state infrante. Virgilio con grande deferenza spiega le ragioni del viaggio di Dante, un percorso di salvezza voluto dal cielo, alla ricerca della libertà dal peccato, quella libertà che era stato un valore tanto gradito anche a Catone. Virgilio aggiunge di provenire lui stesso dal Limbo, dove si trova anche Marzia, la donna da sempre innamorata di lui, e in nome di Marzia lo prega di consentire loro di proseguire il cammino. 

Catone risponde che se il viaggio è voluto dal Paradiso lui non si opporrà e anzi invita Virgilio a cingere i fianchi di Dante con giunchi e a lavargli il viso dalle lordure dall’Inferno, atti che potrà svolgere sulla spiaggia di quell’isola. Una volta eseguiti questi gesti di purificazione, i due pellegrini dovranno seguire il sorgere del sole per trovare la strada che li conduca alla montagna. Con queste parole Catone svanisce.

Canto II

Il canto di Casella

I due viandanti si trovano sulla spiaggia dell’isola del Purgatorio mentre l’aurora da rossa diventa via via arancione. Dante improvvisamente crede di scorgere sul mare una luce che si avvicina velocissima, che si fa poi sempre più bianca, splendente e grande. Virgilio annuncia al poeta l’arrivo dell’angelo del Paradiso e lo invita a giungere le mani in preghiera. 

Il poeta vede che l’angelo guida una barchetta che sembra non toccare neppure la superficie dell’acqua. Al suo interno stanno cento anime che cantano il loro inno a Dio. L’angelo fa il segno della croce e sbarca le anime sulla spiaggia, ripartendo velocissimo come era arrivato. I peccatori non sanno cosa fare o dove andare e chiedono ai due pellegrini di aiutarli. Ma Virgilio risponde che anche loro sono nella stessa situazione. Le anime si accorgono poi che Dante è vivo e ciò le turba profondamente. 

Tra esse se ne separa una che si avvicina a Dante come per abbracciarlo: il poeta vorrebbe anch’egli compiere quel gesto affettuoso, ma non può riuscirvi, per l’inconsistenza corporea dello spirito. Dante riconosce in lui Casella e gli chiede come mai solo ora raggiunge la spiaggia del Purgatorio visto che è morto da molto tempo. Casella spiega che il tempo per accedere a quel luogo sacro è stabilito da Dio e tutte le anime attendono alla foce del Tevere il loro turno, nella pace e nella gioia. Dante chiede a Casella di allietarlo allora col canto, arte di cui era maestro in vita.

Casella obbedisce e pronuncia con estrema dolcezza le prime note, attirando la curiosità delle altre anime che gli si fanno intorno. Sopraggiunge Catone, molto adirato, che rimprovera tutti di perdere tempo, quel tempo necessario alla purificazione dei loro peccati. Le anime, disorientate e confuse, si allontanano e con loro i due poeti.

Canto III

Il canto di Manfredi

Dante dopo il rimprovero di Catone si avvicina a Virgilio come per chiedere conforto, ma anche questi appare profondamente dispiaciuto e vergognoso per l’errore commesso. Dante intanto osserva la montagna altissima che si erge di fronte a loro. 

Il poeta si accorge che Virgilio non produce ombra col suo corpo e ciò lo turba. La sua guida spiega che le anime sono inconsistenti, anche se possono provare dolori fisici. Come accada ciò non è possibile sapere, visto che le ragioni risiedono nella mente di Dio e non possono essere svelate agli uomini. Stolti sono coloro che pretendono di conoscere ciò che appartiene alle verità sovrumane.

I due pellegrini raggiungono i piedi della montagna ma si rendono conto che è così ripida che appare impossibile scalarla. Mentre si fermano per capire come agire, un gruppo di anime, con andamento lentissimo, si avvicina loro. Quando queste si accorgono che Dante è vivo, perché proietta la sua ombra al suolo, arretrano impaurite.

Dalle anime una si muove verso Dante e chiede al poeta se la riconosce. Lo spirito ha un aspetto bello, quello di un uomo alto, biondo e di portamento dignitoso. Egli rivela di essere Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza d’Altavilla e prega Dante, una volta tornato nel mondo dei vivi, di comunicare a sua figlia Costanza il suo destino ultraterreno. Racconta poi di essere caduto nella battaglia di Benevento e che al suo corpo scomunicato non è stata data degna sepoltura, su ordine del papa Clemente IV. Ma il suo pentimento in punto di morte lo ha salvato dalla dannazione infernale. Ha dovuto comunque attendere, in quanto scomunicato, un tempo trenta volte superiore a quello delle altre anime nell’antipurgatorio, tempo che può essere abbreviato con le preghiere dei vivi. Per questo chiede a Dante di parlare con sua figlia Costanza, le cui preghiere possono aiutarlo nel cammino di espiazione.

Canto IV

Un momento di riflessione. L’incontro con Belacqua

Dante, Virgilio e le anime dei contumaci sono giunti a un punto della parete dove sembra possibile tentare l’ascesa del monte. I due pellegrini si inerpicano per un erto pendio finché non giungono ad un ripiano roccioso, ovvero al primo balzo dell’Antipurgatorio.

Il poeta osserva il corso del sole e non sembra capire perché appaia alla sua sinistra. Virgilio spiega come, per chi si trova nel Purgatorio, il sole si muova da destra verso sinistra e verso nord, mentre per chi osserva dall’altro emisfero il movimento appaia opposto, diretto verso sud. Virgilio aggiunge che la montagna, che ora sembra così ardua da scalare, via via che si sale, diventa più accessibile, sino a quando giunti vicino alla cima non diventa estremamente agevole da raggiungere.

Dante ode una voce che si rivolge a lui e si accorge che poco lontano ci sono delle anime che se ne stanno ferme (spiriti pigri a pentirsi). Il poeta riconosce colui che ha parlato: si tratta di Belacqua e Dante si mostra lieto della sua salvezza anche se non comprende il motivo della sua immobilità, visto che c’è una montagna da scalare. Il penitente risponde che non c’è motivo per lui di affannarsi, visto che, in ragione della sua pigrizia a pentirsi, deve attendere ancora tutti gli anni della sua vita prima di poter accedere alla porta del Purgatorio.

Canto V

Tra gli spiriti dei morti per forza: Iacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia de’ Tolomei

I due pellegrini proseguono nella loro ascesa quando incontrano una nuova schiera di anime che vedendo l’ombra proiettata da Dante al suolo si incuriosiscono e si avvicinano. Sono le anime dei morti per forza, che furono nel peccato fino al momento della morte, ma che si pentirono prima di spirare, quindi in grazia di Dio. Il poeta non riconosce nessuno di loro, e li invita a parlare promettendo di fare qualcosa per loro, quando tornerà nel mondo dei vivi.

Il primo ad avvicinarsi è Iacopo del Cassero, che prega Dante, se dovesse passare nelle sue terre tra Romagna e regno di Napoli, di invitare i suoi familiari a fare orazioni per lui e ridurgli così il tempo di permanenza nell’Antipurgatorio. Racconta poi di essere stato ucciso per ordine di Azzo d’Este e in circostanze per lui molto sfortunate.

Dante incontra poi un nuovo spirito che avanza con la testa bassa. È Bonconte da Montefeltro che si addolora per il mancato interesse verso di lui della sua vedova. Su richiesta di Dante narra come il suo corpo non sia stato mai ritrovato in terra, dopo la battaglia di Campaldino, dove cadde ferito a morte. Egli, con la gola tagliata, sul punto di spirare, aveva raccomandato la sua anima a Maria, procurandosi così la salvezza eterna. Ma il diavolo volle contendere il suo spirito all’angelo che intendeva portarlo sulla strada della salvezza, perché riteneva tardivo il suo pentimento. Sconfitto dall’angelo, il diavolo decise di vendicarsi sul suo corpo. Scatenò una terribile tempesta che trascinò le sue membra nei fiumi, fino all’Arno finendo per essere seppellito sul fondo del fiume.

L’ultimo incontro è con Pia de’ Tolomei, che cortesemente chiede al poeta, al suo ritorno nel mondo, di ricordarsi di lei e della sua triste vicenda che la vide uccisa dall’uomo che l’aveva voluta come sposa.

Canto VI

L’incontro con Sordello

Dante è circondato dalle anime dei morti per forza che si affannano intorno a lui con le loro richieste.

Il poeta domanda a Virgilio se le preghiere che i dannati chiedono ai loro familiari e conoscenti in Terra sono davvero efficaci nell’abbreviare i tempi della loro pena in Purgatorio. Virgilio ribatte che Beatrice risponderà a questa e ad altre domande del poeta al momento opportuno, quando la incontrerà nel Paradiso Terrestre e lo accompagnerà nel proseguo del suo viaggio.

I due pellegrini incontrano un altro spirito che in un primo momento non sembra interessato alla loro presenza. Quando Virgilio rivela la sua identità e accenna alla città di Mantova, il peccatore corre ad abbracciarlo e dice di chiamarsi Sordello da Goito, nato nelle stesse terre del poeta latino. 

Dante approfitta del gesto affettuoso di Sordello rivolto a Virgilio solo perché suo conterraneo, per rivolgere una invettiva violenta contro l’Italia e gli italiani, che si combattono senza sosta anche tra amici e fratelli. Il popolo non permette all’imperatore di governarli, preferendo signori locali incapaci di guidarlo. L’imperatore a sua volta lascia che i suoi domini siano abbandonati a se stessi, e si disinteressa degli intrighi e degli abusi che vi si consumano.

Una nuova invettiva viene lanciata dal poeta anche su Firenze giudicata con ironia patria della pace e della giustizia, dove una legge una volta promulgata non solo non viene rispettata ma vive una vita brevissima. Firenze è come un’ammalata che invece di curarsi si gira nel letto per cercare di provare meno dolore.

Canto VII

Nella valletta dei Principi

Sordello chiede a Virgilio di rivelargli la sua identità e il poeta latino dice di essere stato un uomo vissuto al tempo di Ottaviano e di essere punito nel I cerchio dell’Inferno, nel Limbo, e di non essere salvo per non aver avuto fede in Dio. Con lui sono anche i bambini non battezzati e coloro che, pur magnanimi, sono stati possessori delle virtù cardinali ma non di quelle teologali.

Sordello spiega ai due pellegrini che con l’oscurità è impossibile provare l’ascesa alla montagna, perché la notte potrebbe far perdere loro la strada o ricondurli in basso da dove sono partiti.

Sordello e i due viandanti si avviano verso il fianco della montagna che si presenta con una grande apertura o valletta dove, su consiglio del penitente, è bene trascorrere la notte. La valletta è sede dei principi negligenti e si presenta ricca di piante e fiori profumatissimi e dai colori vividi. Le anime peccatrici intonano inni a Dio e Dante e Virgilio preferiscono salire più in alto per osservare quella valletta da un punto di vista privilegiato.

Sordello aiuta i due poeti a riconoscere i principi che lì hanno dimora, da Rodolfo d’Asburgo a Filippo III di Francia, a Enrico III d’Inghilterra.

Canto VIII

Nino Visconti

È giunta l’ora del tramonto quando, chi è lontano dalla propria famiglia e dalla propria città, è colto da un profondo senso di solitudine e di dolce tristezza, nel ricordo di una ormai trascorsa comunione di affetti. È il tempo dell’esilio: quello, storico, di Dante lontano da Firenze e quello degli spiriti penitenti in attesa di salire alla luce di Dio. Il canto delle anime, che intonano il salmo «Te lucis ante», è seguito dall’arrivo di due angeli splendenti, ciascuno con una spada fiammeggiante, che hanno il compito di difendere quel gruppo di penitenti dall’assalto del demonio che fra poco li tenterà. 

Scendendo nella valletta, Dante incontra l’anima di Nino Visconti al quale fu legato da affettuosa amicizia. A lui Dante rivela di essere ancora vivo, suscitando lo stupore di tutte le anime. Nino chiede al poeta di dire all’amata figlia Giovanna di pregare per lui, essendo il Cielo attento alle parole degli innocenti. Si rivolge alla figlia perché non crede che sua moglie, Beatrice d’Este, lo ami più, dal momento che ha dismesso le bianche bende vedovili per sposare Galeazzo Visconti.

Dalla parte della valletta non protetta compare un serpente, probabilmente simile a quello che tentò Eva, offrendole il cibo del peccato. Il serpente si muove strisciando, avanzando subdolo, seminascosto dall’erba e dai fiori, come un viscido seduttore che cerca la preda, ma anche come un guerriero che si prepara a combattere. È nell’ora di compieta che giunge puntualmente la tentazione del diavolo, cui opporranno difesa gli angeli. Parla poi l’ombra che Nino aveva chiamato accanto a sé: si tratta di Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che chiede notizie della sua famiglia. Il canto si chiude con la solenne profezia dell’esilio fatta dal Malaspina che annuncia a Dante come entro sette anni avrà modo di sperimentare direttamente la virtù della sua casata, di cui il poeta ha appena tessuto le lodi.

Canto IX

La porta del Purgatorio e l’angelo guardiano

Dante si addormenta sull’erba della valletta dei principi. Sogna di trovarsi sul monte Ida in Grecia dal quale vede volteggiare sopra di sé un’aquila dalle penne d’oro. L’aquila si getta su di lui e lo rapisce conducendolo oltre la sfera del fuoco e procurandogli grandi sofferenze. Il poeta si sveglia turbato e pallido in volto.

Virgilio conforta Dante spiegandogli che, mentre dormiva, santa Lucia si era recata da lui e l’aveva trasportato fino alla porta del Purgatorio, dove ora si trovano, dopo aver indicato a Virgilio la strada da seguire. La santa si era poi allontanata poco prima del risveglio del poeta.

I due pellegrini raggiungono una spaccatura della parete rocciosa dove scorgono una porta il cui accesso avviene attraverso tre gradini di colore diverso. A guardia della porta c’è un angelo il cui volto appare così luminoso da non poter essere distinto. Imbraccia una spada che riflette i raggi del sole. L’angelo chiede chi li abbia condotti fino alla porta del Purgatorio e Virgilio risponde che è stata santa Lucia. L’angelo permette loro di entrare.

Virgilio invita Dante a salire gli scalini. Il poeta vede che il primo scalino è di marmo bianco e risplende; il secondo è di pietra scura, il terzo è rosso come il sangue e su quello siede l’angelo guardiano. Dante chiede umilmente all’essenza beata di aprire la porta e questa risponde che lo farà servendosi di due chiavi, una d’argento e l’altra d’oro, ricevute da san Pietro. La porta si apre con molta difficoltà a significare la fatica che il peccatore deve compiere per superarla. L’angelo incide sette P sulla fronte di Dante che dovrà lavare ogni volta che avrà esaurito il suo percorso in ogni singola cornice e lo invita ad entrare, senza mai voltarsi indietro.

Canto X

La I cornice: le splendide sculture e l’incontro coi superbi

I due pellegrini hanno superato la porta del Purgatorio e si inerpicano lungo un angusto sentiero che procede a zig zag fino nella prima cornice, ampia in larghezza poco più di tre corpi umani distesi.

Dante scorge sulla parete del monte dei bassorilievi bellissimi che rappresentano l’arcangelo Gabriele che reca l’annuncio della nascita di Gesù e Maria che obbedisce al volere divino.

Invitato da Virgilio, Dante osserva un’altra scultura così bella e realistica da far credere di ascoltare inni e canti e avvertire l’odore dell’incenso: raffigura il carro che trasportò l’arca santa preceduto dal re David.

Il poeta è attratto da una nuova splendida creazione in marmo che rappresenta l’imperatore Traiano accompagnato da cavalieri con le insegne romane a forma di aquila e narra la storia della vedova che chiede al suo imperatore giustizia per il figlio ucciso.

I due pellegrini, mentre guardano ammirati le splendide opere, vedono avvicinarsi una schiera di anime che camminano curve sotto pesanti massi. Sono gli spiriti che scontano il peccato di superbia. Dante lancia adesso una violenta invettiva contro i cristiani ricordando che l’uomo è come un verme che si trasforma in farfalla per poi volare in cielo. Ma spesso dimentica questa sua condizione e rimane un vile insetto impedendo la sua naturale metamorfosi.

Canto XI

Incontro con Guglielmo Aldobrandeschi

I superbi della prima cornice, piegati sotto i pesanti macigni, intonano il Pater Noster e si raccomandano a Dio perché perdoni i loro peccati e allontani le tentazioni del male dagli uomini che vivono sulla Terra. 

Virgilio chiede loro di indicargli quale strada percorrere per raggiungere la seconda cornice, una via che sia agevole, perché il corpo di Dante è vivo e pesante e quindi sensibile alle asprezze del cammino.

Uno spirito risponde a Virgilio e gli mostra sulla destra un sentiero che anche un essere in vita può affrontare. Rivela poi di essere figlio di Guglielmo Aldobrandeschi e di essere stato così superbo in vita da nutrire disprezzo per tutti gli uomini, al punto di procurarsi, con questo atteggiamento, anche la morte. Egli si chiama Omberto Aldobrandeschi e dovrà permanere in quella cornice tutto il tempo che la giustizia divina riterrà necessario.

Dante osserva adesso un altro peccatore, chino sotto il suo masso, e lo riconosce per Oderisi da Gubbio, famosissimo miniatore. Questi confessa quanta superbia lo abbia animato in vita, quando si mostrava sprezzante verso le opere del suo rivale Franco Bolognese. Oderisi adesso critica l’atteggiamento arrogante di chi, per raggiungere la fama, compie sforzi enormi, senza pensare che il tempo del suo successo sarà breve, e che il suo nome sarà presto dimenticato, sostituito da quello di un altro come lui. Così è accaduto a Cimabue con Giotto, così a Guinizzelli con Cavalcanti. E l’uomo non pensa a quanto breve è il tempo della loro fama, se si confronta con l’eternità dei cieli. Oderisi mostra a Dante un altro superbo, famosissimo in Terra al tempo della battaglia di Montaperti, ora dimenticato da tutti.

Su richiesta di Dante, Oderisi rivela il nome di quel peccatore: è Provenzan Salvani, così superbo da voler diventare signore di Siena, ma, ammesso in Purgatorio, si trova ora in quella cornice, in ragione del grande gesto di umiltà compiuto per salvare, dalle prigioni di Carlo I d’Angiò, un suo amico.

Canto XII

Gli esempi di superbia punita e l’angelo dell’umiltà

Dante e Virgilio lasciano la schiera dei superbi e procedono lungo la I cornice, osservando le splendide sculture sul pavimento, simili a quelle presenti nelle chiese, volte a rendere ancora più belle le tombe dei defunti.

Il poeta vede raffigurati al suolo innumerevoli esempi di superbia punita: Lucifero fatto precipitare nell’Inferno da Dio, il gigante Briareo colpito dai fulmini di Giove, il gigante Nembrod ai piedi della torre di Babele e poi Niobe, Saul, Aracne, Roboamo, Alcmeone, Sennacherib, re Ciro, gli Assiri, la stessa città di Troia.

La visione di quelle mirabili rappresentazioni spinge Dante a rivolgersi ironicamente a tutti gli uomini, invitandoli a continuare a camminare col volto verso il cielo, senza essere in grado di scorgere il male che lasciano sul loro percorso.

Virgilio esorta Dante a procedere per cercare la via che li condurrà alla II cornice. Si avvicina un nuovo angelo, l’angelo dell’umiltà, vestito di bianco e luminoso, che lava la prima P dalla fronte del poeta e guida i due pellegrini verso la scala che permette la nuova ascesa alla montagna.

Dante inizia a salire i gradini ma avverte una maggiore leggerezza e una minore fatica nell’affrontarli, chiedendone al suo maestro il motivo. Virgilio risponde che ogni passaggio successivo alle cornici sarà per lui più agevole, perché si sarà privato del peso dei peccati rappresentati dalle P sulla sua fronte. In cima alla montagna non avvertirà più alcuno sforzo ma al contrario piacere nel procedere, perché ormai libero dalla gravosa zavorra del male.

Canto XIII

La II cornice: gli invidiosi e l’incontro con Sapìa

I due pellegrini raggiungono la II cornice, che appare del colore della pietra. Dopo essere avanzati poco più di un miglio, scorgono degli spiriti sopra di loro, che pronunciano parole di cui Dante non comprende il significato. Virgilio spiega che essi scontano il peccato di invidia e invitano alla carità.

Dante e Virgilio vedono gli invidiosi addossati alla parete della montagna, che si sorreggono gli uni agli altri, con indosso un panno ruvido, muovendosi come ciechi, con gli occhi serrati dal fil di ferro. 

Il poeta si rivolge a loro, che non possono vederlo, chiedendo se c’è qualcuno che sia italiano. Una delle anime si fa avanti e rivela di chiamarsi Sapìa: aggiunge di non essere stata affatto saggia in vita, provando il massimo piacere nel vedere le disgrazie altrui. Anche quando i suoi concittadini senesi furono impegnati nella battaglia di Colle Val d’Elsa ella si augurò che venissero sconfitti e fu lieta quando questa eventualità si realizzò, gridando la sua gioia a Dio. La sua presenza in Purgatorio è merito delle preghiere di Pier Pettinaio, ma ora vuole conoscere da Dante la sua identità e il motivo del suo viaggio.

Il poeta si rivela e confessa che anche lui avrà gli occhi cuciti in quella cornice quando sarà nell’oltretomba, ma non per lungo tempo, perché lieve fu il suo peccato di invidia, mentre un tempo ben più lungo dovrà trascorrerlo sotto il peso dei macigni nella I cornice a scontare il peccato di superbia. Sapìa prega allora il poeta di ricordarla in Terra e di difendere il suo onore tra i suoi concittadini.

Canto XIV

Invettive contro i popoli della valle dell’Arno e della Romagna

Due peccatori nella II cornice chiedono chi sia colui che ha il privilegio di camminare in quel luogo con gli occhi aperti e col corpo vivo. Il poeta risponde di provenire dalla terra dove scorre il fiume nato dal monte Falterona.

Le due anime, Guido del Duca e Rinieri di Calboli, si meravigliano del perché Dante non abbia pronunciato il nome dell’Arno, ma Guido aggiunge che i popoli che vivono lungo la sua valle dovrebbero scomparire a causa del male che producono a se stessi e agli altri: così i Casentinesi, gli Aretini, i Fiorentini, i Pisani.

Guido aggiunge che il nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, combatterà contro i guelfi fiorentini e di loro farà strazio. Su richiesta di Dante, Guido rivela il suo nome e confessa di aver provato sempre tanta invidia in vita, da sperare che mai nessuno potesse gioire di qualcosa. Rinieri di Calboli, vicino a lui, invece ha recato onore alla sua famiglia che, al contrario, fu protagonista di azioni nefande in Romagna, regione dominata dal male.

Guido scaglia adesso una violenta invettiva contro la sua terra, lamentando la scomparsa di persone dall’animo nobile e cortese, sostituite ora da cuori malvagi.

I due pellegrini si allontanano dalle anime degli invidiosi, quando odono voci, provenienti dall’alto, che pronunciano frasi dal significato oscuro per Dante. Virgilio spiega che si tratta di ammonimenti rivolti agli uomini perché siano in grado di scorgere e ammirare le bellezze del creato e perché non si abbandonino alle lusinghe del demonio.

Canto XV

Nella III cornice tra i peccatori d’ira: esempi di mansuetudine

I due pellegrini avanzano verso occidente, quando Dante sviene abbagliato da una luce fortissima. È lo splendore che emana l’angelo della misericordia che li invita a salire la scala che li conduce alla III cornice.

Mentre procedono, Dante chiede a Virgilio il significato di una frase pronunciata da Guido del Duca, quella che dichiara come il godimento di un bene è minore fra gli uomini se quel godimento è condiviso tra molte persone e questo produce invidia. Il poeta latino osserva che tale modo di agire riguarda il mondo terreno: nel Paradiso accade il contrario. Più la gioia di Dio è condivisa, maggiore è l’amore dei beati. Ma questo concetto gli sarà spiegato a suo tempo da Beatrice.

Dante e Virgilio sono ora nella III cornice dove sono puniti i peccatori d’ira. Dante viene rapito da più visioni: nella prima vede Maria che rimprovera dolcemente Gesù nel tempio per non averla avvertita e averla preoccupata; nella seconda è colpito dall’immagine di una donna che prega Pisistrato di punire severamente chi ha osato baciare pubblicamente la figlia ma il tiranno risponde di non dovere agire contro un atto d’amore; nella terza vede giovani al colmo dell’ira che lapidano santo Stefano il quale prega Dio di perdonare i suoi assassini.

Dante si risveglia dal suo stato di incoscienza e Virgilio, che ha letto nella sua mente il contenuto dei suoi sogni e il turbamento che hanno provocato in lui, spiega che il poeta ha assistito ad esempi di mansuetudine che hanno lo scopo di liberare l’uomo dal peccato d’ira.

I due poeti procedono lungo la cornice fino al punto in cui si immergono in un fumo molto denso e dall’odore acre che non possono evitare.

Canto XVI

Marco Lombardo e la spiegazione del libero arbitrio

I due pellegrini avanzano nel fumo della III cornice che irrita talmente gli occhi da costringere Dante a chiuderli e a procedere appoggiato a Virgilio, come un cieco. Odono poi delle voci che intonano l’Agnus Dei e Virgilio spiega che provengono dagli iracondi.

Tra queste una in particolare si leva dal fumo e chiede ai due viandanti chi siano e perché si trovino lì. Virgilio invita Dante a rispondere e a chiederle poi se quella è la via giusta per raggiungere la cornice successiva. Il peccatore rivela di chiamarsi Marco Lombardo, di essere stato uomo di corte, che il cammino che i due poeti stanno seguendo è corretto e invita Dante a pregare per lui.

Il poeta risponde che esaudirà il suo desiderio per lui ma chiede al peccatore che gli risolva un dubbio che lo turba già dagli incontri con altre anime avuti in precedenza: se è vero che le virtù cavalleresche sono scomparse nel mondo dove domina il male, che cosa ha determinato tutto questo? L’agire dell’uomo o le influenze degli astri? Marco Lombardo spiega che gli uomini sono portati ad attribuire agli astri la responsabilità delle loro azioni, ma questo non corrisponde alla verità. È il libero arbitrio che guida l’agire degli individui, altrimenti, se non esistesse quello, che senso avrebbero le punizioni e i premi nell’oltretomba? Gli astri influenzano solo inizialmente il comportamento umano, poi subentra la volontà libera che si manifesta più potente della forza di qualsiasi stella.

La causa della presenza del male nel mondo dunque è unicamente il comportamento umano. Marco Lombardo spiega che l’anima, quando si forma, è come una bambina che non sa come comportarsi e si volge verso le cose che le recano maggior piacere, anche quelle sbagliate. Esistono però le leggi che hanno il compito di impedire che questo avvenga. Ma in questi tempi chi è in grado di far rispettare le leggi? Nessuno, aggiunge Marco, non certo il papa che è attratto solo dai beni terreni. Nell’epoca dell’antica Roma esistevano due soli la cui luce illuminava il cammino dei popoli: l’imperatore e il papa, ma il loro splendore è ormai svanito e ciascuno confonde con l’altro le proprie prerogative.

Il peccatore aggiunge che in terra di Lombardia non esiste più alcun uomo virtuoso. Sono rimasti solo tre vecchi onesti che aspettano solo di morire. E la colpa è della Chiesa che pretende di gestire sia il potere spirituale che quello temporale.

Canto XVII

La IV cornice: l’ordinamento morale del Purgatorio

I due pellegrini lasciano alle loro spalle Marco Lombardo ed escono dal denso fumo della III cornice. Dante prova tre nuove visioni che mostrano esempi di ira punita, di cui sono protagonisti Progne, Aman e Lavinia.

Il poeta si risveglia dal suo stato di incoscienza e viene colpito da una luce fortissima che lo acceca. Virgilio spiega che quello splendore proviene dall’angelo della mansuetudine che invita i due viandanti a salire la scala che conduce alla IV cornice.

Dante durante l’ascesa chiede a Virgilio quale peccato sia punito in questo luogo. Il poeta latino risponde che è l’accidia, ovvero lo scarso amore per il bene.

Virgilio spiega che l’amore è la forza che guida l’uomo nel bene e nel male. Esiste un amore naturale che è sempre buono e un amore per scelta che può essere diretto sia al bene che al male. L’uomo non può non amare se stesso, creatura di Dio, e Dio stesso, ma può scegliere: di amare la vittoria sugli altri uomini operando ai loro danni (superbia); di odiare gli altri se questi dovessero superarlo (invidia); di vendicarsi se dovesse ricevere un’offesa (ira). Questi tre peccati sono puniti nelle prime tre cornici del Purgatorio. Se l’uomo si volge al bene con una intensità troppo lieve compie peccato di accidia punito nella IV cornice; nelle tre cornici successive si puniscono invece i peccati commessi da coloro che si rivolgono con energia eccessiva verso beni terreni e mondani.

Canto XVIII

Ancora sull’amore e sul libero arbitrio

Virgilio prosegue la sua spiegazione a Dante sulla natura dell’amore. Il poeta latino osserva come l’anima dell’uomo si volge con naturalezza verso ciò che le procura piacere e questo qualcosa è offerto dalle cose naturali. 

Dante obbietta allora che se l’amore verso le cose naturali è consentito, come nasce il peccato o la colpa? Virgilio risponde che l’uomo è dotato di un’altra facoltà, la ragione, che gli permette di distinguere se un bene materiale per cui la sua anima avverte inclinazione sia buono o cattivo. È la ragione dunque che deve guidare gli impulsi naturali. Da qui nascono il peccato o la virtù. L’uomo è indotto naturalmente ad amare, ma la sua ragione ha il compito di sollecitare o negare questa attitudine a seconda dei casi. Questa libertà nell’agire è definita libero arbitrio.

Il poeta è ora colto da stanchezza e sonnolenza ma viene risvegliato dalla corsa degli accidiosi che si dirigono verso di lui gridando esempi di sollecitudine, che hanno per protagonisti Maria e Cesare.

I penitenti sono adesso mossi da un energico attivismo come in vita, al contrario, erano stati colti da eccessiva pigrizia. Tra loro emerge l’anima dell’abate di San Zeno vissuto al tempo di Federico Barbarossa. Egli rivela che colui che adesso ha potere sul suo monastero e che ha stabilito come suo successore il figlio incapace, si pentirà delle sue azioni una volta nel mondo dell’oltretomba.

Altri accidiosi gridano intanto esempi di accidia punita che hanno per protagonisti il popolo degli Ebrei e quello dei Troiani.

Canto XIX

Il sogno della femmina balbuziente e l’arrivo nella V cornice

Dante si addormenta e in sogno ha la visione di una donna che balbetta, con gli occhi strabici, pallida, le dita rattrappite e claudicante. Col potere del suo sguardo la trasforma in una donna bellissima, che si rivolge a lui presentandosi come una buona sirena che incanta gli uomini. Appena concluso il suo discorso, compare, accanto alla sirena, una seconda donna dall’aspetto beato che chiede chi sia mai questa creatura. Interviene alla fine Virgilio che ne strappa le vesti e scopre sotto quelle un ventre immondo e maleodorante.

Il poeta viene risvegliato dalla sua guida e i due si incamminano verso la V cornice quando l’angelo della sollecitudine compare di fronte a loro con le sue ali bianchissime e li guida verso la scala che consente loro l’ascesa.

Virgilio, vedendo Dante turbato, comprende che la ragione sta nell’incubo da cui si è appena svegliato. Egli spiega che la donna che ha visto in sogno rappresenta la cupidigia, ovvero il desiderio sfrenato verso i beni materiali, che è alla base dei peccati che sono puniti nelle cornici soprastanti.

I due pellegrini, ora nella V cornice, incontrano i penitenti responsabili di avarizia e prodigalità, distesi in terra con la faccia rivolta al suolo e piangenti. Tra loro, risponde alle sollecitazioni di Dante l’anima di papa Adriano V che racconta di essere originario di Lavagna in Liguria, membro di una illustre famiglia e di essere stato pontefice per breve tempo, ma sufficiente per fargli comprendere quanto difficile fosse il compito assegnatogli. Ebbe modo di comprendere i suoi errori e soprattutto pentirsi del peccato di avarizia dal quale per tutta la vita era stato colpevole.

Papa Adriano illustra ai due viandanti la pena degli avari e dei prodighi: come in vita le loro attenzioni furono tutte rivolte verso i beni terreni, adesso devono espiare la loro colpa stando distesi in terra con le mani e i piedi legati e il viso al suolo. Dante si inginocchia di fronte al papa, ma questi lo invita ad alzarsi spiegando che nell’oltretomba non esistono ruoli e dignità mondane da rispettare, ma tutti sono eguali di fronte a Dio. Poi invita il poeta ad allontanarsi.

Canto XX

Tra gli avari: l’incontro con Ugo Capeto

Dante e Virgilio procedono nella V cornice camminando aderenti alla parete, visto che i peccatori stanno distesi fin all’orlo di essa. Il poeta maledice la lupa simbolo di avarizia che tanto male produce nel mondo, mentre un penitente grida esempi di liberalità di cui protagonisti sono Maria, il console romano Luscinio e san Niccolò.

Dante vuole conoscere chi sia l’autore di quelle parole e rivolto a lui promette che lo ricorderà nel mondo, al suo ritorno. Il penitente risponde che parlerà non per essere rammentato tra gli uomini ma perché il cammino di salvezza di Dante è voluto dal cielo. Rivela di essere Ugo Capeto, capostipite dei re francesi capetingi. Spiega come i suoi primi discendenti non si macchiarono di particolari colpe ma furono i successori ad agire nel male e nell’inganno. Tra questi Carlo I d’Angiò, Carlo di Valois, Carlo II d’Angiò, fino al peggiore di tutti Filippo il Bello, colpevole dell’oltraggio a papa Bonifacio VIII. 

Per tutti Ugo Capeto chiede la punizione di Dio.

Il peccatore aggiunge che le anime penitenti, durante il giorno, citano gli esempi di liberalità, mentre, durante la notte, quelli di avarizia e prodigalità punite.

I due viandanti si sono appena allontanati da Ugo Capeto quando un tremendo terremoto scuote la montagna. Poi riprendono la marcia tra gli spiriti piangenti, distesi a terra.

Canto XXI

L’incontro con Stazio: spiegazione della natura del Purgatorio

Dante e Virgilio procedono lungo la V cornice quando un’anima si presenta loro, quella del poeta latino Stazio che chiede la ragione della loro presenza in Purgatorio. Virgilio risponde e chiede poi a sua volta la causa di quel terremoto.

Stazio spiega come la montagna del Purgatorio, almeno la parte che si trova al di sopra della sua porta d’accesso, non è soggetta ad alcun evento naturale: non a pioggia o vento, non a ghiaccio o brina, non a lampi o tuoni, non all’arcobaleno e neppure ai terremoti che si producono dalle viscere della Terra. Il Purgatorio è soggetto soltanto agli influssi divini. Il terremoto dunque che hanno appena sentito segnala l’ascesa di un penitente che ha espiato le proprie colpe. Confessa poi di essere stato in quella cornice per più di cinque secoli e di essersi purificato appena prima, da cui l’esplosione del terremoto.

Il peccatore rivela ai due viandanti di chiamarsi Stazio e di essere vissuto al tempo dell’imperatore Tito, che abbatté il tempio di Gerusalemme vendicando così l’uccisione del Cristo. Egli fu incoronato poeta a Roma dopo aver scritto la Tebaide e l’Achilleidee confessa di essersi ispirato, nella sua produzione poetica, all’Eneide di Virgilio di cui tesse infinite lodi. 

Dante sorride e alla richiesta di Stazio dei motivi del suo comportamento egli risponde che quel Virgilio da lui tanto venerato è proprio davanti ai suoi occhi, sua guida e suo maestro. Stazio si getta allora ai piedi di Virgilio in segno di deferenza e rispetto ma il poeta lo invita a rialzarsi.

Canto XXII

Nella VI cornice: l’albero dei frutti bellissimi e la fonte di acqua pura

I tre poeti, Dante, Virgilio e Stazio, accedono alla scala che conduce alla VI cornice dopo che l’angelo della giustizia ha cancellato la quinta P dalla fronte del pellegrino fiorentino. Virgilio chiede a Stazio come sia stato possibile che lui abbia peccato di avarizia data la sua grande saggezza.

Stazio rivela che non di avarizia si è macchiato ma del peccato contrario, ovvero di prodigalità, che viene ugualmente punito in quella cornice. Egli confessa che è stata proprio la lettura di un passo dell’Eneide, quello di Polidoro, a salvarlo e a convincerlo a pentirsi.

Stazio aggiunge che, sempre per merito di Virgilio e della sua poesia, che aveva annunciato la comparsa di un grande rinnovamento nel mondo, si era convertito al cristianesimo. Era il tempo delle persecuzioni di Domiziano, ed egli aveva assistito alle terribili violenze contro i primi fedeli di Gesù, che lo avevano profondamente addolorato. Si era dunque battezzato e aveva sposato la nuova religione, ma in segreto, mostrandosi pubblicamente ancora dedito ai riti pagani. Questo suo ambiguo atteggiamento era stato la ragione della sua lunga permanenza nel Purgatorio, nella IV cornice tra i peccatori di accidia.

Su richiesta di Virgilio che chiede il destino ultraterreno dei grandi poeti e letterati della classicità, Stazio risponde che si trovano tutti nel Limbo, il I cerchio dell’Inferno, da Plauto a Varrone a Euripide, a Simonide. E con loro ci sono i personaggi da lui cantati nella Tebaide.

I tre viandanti accedono alla VI cornice e procedono verso destra, fino a quando non incontrano un albero dalla strana forma a cono rovesciato, pieno di frutti bellissimi che pendono dai suoi rami. E poco lontano scorgono una fonte da cui sgorga acqua purissima. Stanno per avvicinarsi alla pianta quando una voce li ammonisce a non farlo e grida esempi di temperanza che hanno per protagonisti Maria, le donne di Roma antica, il profeta Daniele, san Giovanni Battista.

Canto XXIII

Tra i golosi: l’incontro con Forese Donati

Dante segue Virgilio e Stazio che parlano tra loro quando vede sopraggiungere una schiera di anime penitenti, i golosi, che corrono e si mostrano col volto così magro da avere la pelle del viso che mostra le fattezze delle ossa del cranio sottostante.

Una delle anime si stacca dalla schiera dei penitenti e alla vista del poeta prorompe in un grido di gioia. Dante non può riconoscerlo per l’aspetto così stravolto del suo corpo ma dalla voce comprende che si tratta di Forese Donati, suo amico carissimo, che ora provoca sensazioni di pena e dolore data la sua orribile condizione. Il poeta chiede la ragione della sua magrezza e Forese risponde che i penitenti di quella cornice sono straziati dalla fame e dalla sete, accresciute dalla vicinanza dei frutti sull’albero e dall’acqua della fonte che non possono però raggiungere.

Dante si chiede come mai Forese, deceduto solo da cinque anni, si trovi già nella VI cornice, senza scontare tempi più lunghi lungo la foce del Tevere o nell’Antipurgatorio. L’amico risponde che il merito è tutto della moglie Nella, donna fiorentina virtuosa, che con le sue preghiere gli ha permesso un sensibile sconto di pena. Forese lancia adesso una violenta invettiva contro le femmine di Firenze che al contrario di Nella si mostrano volgari e impudiche, con il loro camminare altere e a seno nudo per le vie della città. Esse pagheranno un giorno le conseguenze della giustizia divina che saranno per loro terribili.

Il poeta fiorentino su richiesta di Forese enuncia poi all’amico le ragioni del suo viaggio ultraterreno guidato da Virgilio e ora anche da Stazio.

Canto XXIV

La profezia di Forese Donati e l’arrivo al secondo albero da frutta

I due amici procedono nella VI cornice al seguito di Virgilio e Stazio e su richiesta di Dante, Forese rivela che la sorella Piccarda Donati si trova ora tra i beati in Paradiso. Egli mostra al poeta alcuni dei peccatori di gola come Bonagiunta di Lucca e papa Martino V di Tours così sensibile ai piaceri della cucina e dedito al vino e alla passione per le anguille.

Dante si rivolge proprio a Bonagiunta di Lucca che gli profetizza la nascita di una donna nella sua città che lo ospiterà durante il suo esilio. Il peccatore disquisisce poi con Dante sulla poesia e sugli stilnovisti.

Il poeta procede ancora al fianco di Forese mentre gli altri golosi si allontanano da loro. L’amico gli chiede quando lo potrà rivedere e Dante risponde di non conoscere il tempo che gli rimane ancora da vivere, ma spera di lasciare presto il mondo terreno e la sua città, Firenze, così straziata dal male. Forese aggiunge che una delle ragioni della degradazione della loro patria sta nel comportamento di Corso Donati guida della sua nobile famiglia, che però raggiungerà quanto prima l’Inferno, trascinato da un cavallo che ne stravolgerà orribilmente l’aspetto.

Forese si allontana sotto gli occhi di Dante che, al seguito di Virgilio e Stazio, raggiunge il luogo dove sorge un secondo albero da frutta: intorno a questo si accalcano le anime dei golosi con le mani sollevate verso l’alto senza poterne toccare i rami. Una voce annuncia che quella pianta è stata generata dai semi dell’altra che nell’Eden offrì la mela ad Eva. La stessa voce grida esempi di gola punita, tra i quali quelli dei centauri e degli Ebrei amanti del vino.

I tre avanzano nella VI cornice fin quando non incontrano l’angelo della temperanza che risplende nel rosso delle sue ali e che con le piume soavi cancella la sesta P dalla fronte di Dante.

Canto XXV

Stazio spiega la natura delle anime nell’oltretomba

I tre pellegrini salgono la scala che li conduce alla VII cornice. Dante esprime un nuovo dubbio: come è possibile che le anime dei golosi, pur incorporee, dimagriscano così a causa della fame?

Stazio spiega a Dante la formazione dell’anima: osserva come nel corpo paterno esista il sangue perfetto, purificato dai processi digestivi, che acquisisce le sue virtù formative nel cuore. Tale sangue ha la funzione di generare tutte le membra del futuro nascituro, si trasforma in seme e cala negli organi genitali maschili. Da qui si trasferisce nell’utero della donna dove si mescola al suo sangue. In questa parte si origina la nuova materia, il feto che è come una pianta che a sua volta crea le facoltà dei sensi. L’anima intellettiva si origina invece quando Dio spira nel cervello la ragione e da queste combinazioni si crea un’unica anima che raccoglie in sé i caratteri vegetativi, sensibili e razionali.

Quando un uomo muore, la sua anima, portando con sé le tre diverse facoltà, cade o sull’Acheronte per essere condotta all’Inferno o sulla foce del Tevere per accedere al Purgatorio. Le facoltà vegetative e sensibili sono prive di vita, al contrario di quelle razionali, ma la virtù informativa crea nell’aria circostante una sostanza aerea che riproduce le fattezze del corpo mortale. Si tratta di un corpo d’aria che però attribuisce all’anima la possibilità di ridere o piangere e di avvertire sensazioni di piacere o di dolore. Ecco perché i penitenti di quella cornice, pur privi di materia, possono provare sensazioni di fame e di sete e si offrono coi loro corpi smagriti.

I tre viandanti raggiungono la VII cornice dove, dalla parete rocciosa, prorompono violenti fiamme che, levandosi verso il cielo, lasciano uno stretto corridoio lungo il ciglio della stessa, permettendo ai tre di procedere. Dante vede nelle fiamme le anime dei lussuriosi che cantano l’inno Summae Deus Clementiae, per poi gridare esempi di castità, come quelli di Maria, di Diana e dei coniugi che onorarono la temperanza dei costumi.

Canto XXVI

Nella VII cornice: l’incontro con Guido Guinizelli e Arnaut Daniel

I tre viandanti procedono sull’orlo della VII cornice per scansare le fiamme che si producono dalla parete della montagna. Le anime dei lussuriosi che sono immerse nel fuoco vedono che Dante con l’ombra del suo corpo rende più rosso il punto in cui si proietta. Questo rivela che il poeta è un corpo vivo e dunque come è possibile che egli si trovi tra loro nell’oltretomba?

Prima che Dante possa rispondere alle loro domande, una nuova schiera di penitenti raggiunge la prima provenendo da direzione opposta: i due gruppi si incontrano, senza fermarsi si baciano, poi si separano, gridando esempi di lussuria punita, uno menzionando Sodoma e Gomorra, l’altro Pasifae e il Minotauro. 

Dante rivela alle anime le ragioni della sua presenza nell’oltremondo e augura loro di raggiungere quanto prima il Paradiso; chiede anche ad alcune di esse il loro nome e le loro storie perché possa riferirne al mondo dei vivi.

Lo spirito di Guido Guinizelli si fa avanti e spiega che i penitenti della schiera che era appena sopraggiunta pagano la colpa di sodomia, ovvero lussuria contro natura, mentre quelli come lui, che appartengono al primo gruppo, quella di eccessivo piacere sensuale, ovvero la lussuria secondo natura.

Il penitente rivela il suo nome a Dante e aggiunge che la sua salvezza è dovuta ad un sincero pentimento dichiarato poco prima di morire. Il poeta a sua volta desidererebbe gettarsi nel fuoco per abbracciarlo, lui che considera l’arte di Guinizelli e quella dei compositori come lui assai più grande della propria. Guido indica un altro penitente che merita ancora maggiore considerazione: è Arnaut Daniel che fu il migliore a comporre opere in versi e prose.  Guido prega infine Dante di recitare un Pater Noster per le loro anime una volta in Paradiso.

Guinizelli sprofonda nelle fiamme e lascia che a parlare sia ora Arnaut Daniel che, esprimendosi in lingua d’oc, rivela a Dante la sua identità. Egli richiama alla memoria i peccati commessi in vita ma pensa anche alla beatitudine che lo attende in Paradiso, esortando Dante a pregare per lui. Poi si rituffa nel fuoco.

Canto XXVII

Attraverso le fiamme della VII cornice fino al Paradiso Terrestre

I tre pellegrini procedono nella VII cornice quando appare l’angelo della castità che li invita ad attraversare le fiamme, solo modo per lasciare quel luogo. Dante cade in preda al terrore.

Virgilio cerca di rincuorare il poeta che non intende lanciarsi nel fuoco, rivedendo nella memoria le immagini di uomini bruciati vivi tra immense sofferenze. Il suo maestro spiega che nell’oltretomba niente può procurare la morte e rivolgendosi al suo allievo, come si fa nei confronti di un bambino, lo invita a seguirlo, perché il fuoco è l’unico ostacolo che lo separa da Beatrice.

I tre avanzano tra le fiamme seguendo la voce di un altro angelo che li conduce all’esterno. L’angelo è così splendente che Dante non riesce a distinguerne i lineamenti.

Dante, Virgilio e Stazio cominciano a salire i gradini della scala che li condurrà al Paradiso Terrestre e il poeta fiorentino è così stanco che si siede su uno di essi, mentre con gli occhi al cielo vede che le stelle sono diventate più lucenti.

Immerso nel sonno, Dante ha la visione di una giovane e splendida donna, di nome Lia che si muove nella campagna a raccogliere fiori per rendersi più bella e ammirarsi allo specchio; la sorella Rachele invece rimane seduta a osservare estatica la propria immagine riflessa.

Il poeta si sveglia e Virgilio lo invita a raggiungere quel luogo di felicità terrena cui tutti gli uomini ambiscono. Dante al colmo della gioia corre quasi sugli ultimi gradini, così lieto da non provare alcuna fatica. La sua guida rivela di aver ormai concluso il proprio compito: lo ha condotto tra le pene dei dannati e dei penitenti, ma adesso Dante, purificato dai peccati, può avanzare con le sole sue forze. L’anima del poeta, ormai libera, può seguire l’oggetto dell’amore, ovvero la beatitudine dei cieli, in attesa dell’incontro con Beatrice.

Canto XXVIII

Nel Paradiso Terrestre: l’incontro con Matelda

Dante fa il suo ingresso nella foresta dell’Eden, i cui alberi hanno rami così fitti da non permettere ai raggi del sole di raggiungere il suolo. Egli si sposta con lentezza, mentre un soave venticello lo sfiora e muove le foglie; uccellini intonano il loro dolce canto tra gli arbusti.

Il poeta raggiunge un piccolo ruscello, il Lete, le cui acque sono purissime e trasparenti. Sull’altra riva scorge la presenza di una bellissima donna, Matelda, che canta e raccoglie fiori. Egli la invita ad avvicinarsi per capire il motivo del suo splendido sorriso.

Matelda danza sulle sponde del Lete, con lo sguardo colmo d’amore, intrecciando i fiori appena colti. La donna spiega che il sorriso con cui si è mostrata ai tre viandanti nasce dalla gioia di contemplare Dio. Il poeta chiede la ragione di quel vento e il perché della presenza dei fiumi, visto che Stazio gli aveva spiegato che oltre la porta del Purgatorio la montagna non risente di fenomeni naturali.

La beata donna conferma quello che Stazio aveva già spiegato: aggiunge che l’Eden era stato creato da Dio come sede per Adamo ed Eva, che vi restarono pochissimo tempo, fino al peccato originale. Quel luogo era stato posto al di fuori di ogni evento naturale per non creare difficoltà ai progenitori dell’uomo. Non ci sono dunque vento o sorgenti d’acqua, tuoni o fulmini. Il vento che Dante avverte è prodotto dal ruotare delle sfere celesti mentre l’acqua dei due fiumi sgorga non da una fonte naturale ma direttamente dalla volontà di Dio. Il Lete ha il potere di annullare nelle anime il ricordo dei peccati compiuti; l’Eunoè di ricordare invece il bene realizzato. Ma l’azione del secondo fiume non è possibile se prima non si è bevuta l’acqua del primo.

Canto XXIX

Nel Paradiso Terrestre: la processione mistica

Matelda prosegue il suo canto d’amore e inizia a risalire il corso del Lete seguita dalla parte opposta da Dante. Il poeta si ferma, abbagliato da una improvvisa violenta luce, simile a quella prodotta da un lampo, che però non si interrompe. 

Dante vede avvicinarsi sette grandi candelabri d’oro che con il loro infinito bagliore rischiarano il cielo. Ne chiede ragione a Virgilio ma anche lui appare stupito. Dietro ai candelabri si muovono ventiquattro vecchi, in file di due e due, che intonano lodi alla Vergine Maria. Dietro ai vecchi compaiono quattro animali con indosso una fronda verde e ciascuno con sei ali e penne piene di occhi. I quattro animali sono intorno ad un carro a due ruote, trainato da un grifone con le forme d’uccello di colore dorato.

Accanto alla parte destra del carro danzano tre donne, una di colore rosso, un’altra verde, una terza bianca, alternandosi ciascuna a dettare i ritmi della danza; dalla parte sinistra compaiono altre quattro donne del colore della porpora. Alle spalle di tutti avanzano vestiti di bianco sette personaggi, due vecchi, uno dall’aspetto di un medico, l’altro impugnando una spada, e dietro a loro appaiono quattro umili figure seguite a loro volta da un altro vecchio. Una volta che il carro si avvicina a Dante si ode un grande fragore in cielo come di tuono, che arresta la celeste processione.

Canto XXX

Nel Paradiso Terrestre: l’apparizione di Beatrice

Uno dei ventiquattro vecchi, che precedono il carro, lancia un fortissimo grido in cielo, in seguito al quale cento angeli si alzano in volo lanciando fiori. 

Nella nube colorata che si è venuta a creare compare l’immagine di una donna, vestita di un velo bianco, un mantello verde e una veste rossa e con indosso una ghirlanda di fiori. Il poeta che non può distinguere i lineamenti del volto comprende, per la forza dell’amore che quella visione ha risvegliato in lui, che si tratta di Beatrice, la donna da lui amata in vita. Si volge verso Virgilio per comunicargli il suo turbamento ma si accorge che non c’è più, che è scomparso, per sempre. Il poeta si abbandona allora ad un pianto irrefrenabile.

Beatrice si rivolge a lui e lo rimprovera per le lacrime dovute alla partenza di Virgilio; tante ancora sono le vere lacrime che dovrà versare per accedere ai cieli. La beata lo osserva con severità e Dante abbassa gli occhi per la vergogna. 

Gli angeli provano compassione per Dante e intercedono per lui presso Beatrice. La beata spiega che gravi sono i peccati commessi dal poeta in quanto benefici influssi astrali e la Grazia divina lo avevano messo nelle condizioni di portare a termine grandi opere. Il poeta invece, dopo la morte di lei, si era dedicato ad azioni volte al male e a niente erano serviti i consigli che lei gli ha offerto apparendo nei suoi sogni. Unico modo per salvarlo è stato costringerlo a percorrere l’Inferno per scoprire tutte le sue orribili punizioni, ponendogli come guida Virgilio. Adesso Dante deve manifestare un reale pentimento prima di essere ammesso a bere le acque purificanti del Lete.

Canto XXXI

Nel Paradiso Terrestre: la severità di Beatrice

Beatrice prosegue nel suo rimprovero a Dante e gli chiede quali ostacoli gli hanno impedito di seguire la via del bene e quali ragioni lo hanno portato a imboccare invece la strada della perdizione. Il poeta confessa che alla morte di lei altri falsi piaceri lo indussero all’errore.

La beata spiega che una sincera ammissione di colpa può servire ad alleviare la portata del giudizio di Dio; ma chiede Beatrice, quali altri piaceri, dopo la sua morte, possono aver fatto dimenticare al poeta lei e i suoi insegnamenti?

Di fronte a Dante che abbassa gli occhi per la vergogna, Beatrice lo invita ad alzare lo sguardo e fissarla negli occhi. Il poeta pur attraverso il velo scorge che la donna fissa il grifone e che è di una bellezza incomparabile, come mai nessun essere umano ha potuto raggiungere. Il poeta sviene di fronte a tanta potenza. 

Al suo risveglio scopre di trovarsi immerso nel fiume Lete fino alla gola con Matelda che lo sorregge. La donna lo spinge fino alla sponda opposta rispetto a quella dove prima si trovava Dante. Matelda sospinge la testa del poeta sotto l’acqua e lo obbliga a bere.

Una volta fuori dall’acqua Matelda consegna Dante alle quattro donne danzanti alla sinistra del carro, che spiegano di essere le ancelle di Beatrice volute dal cielo. Il poeta viene condotto di fronte al grifone e invitato a fissare lo sguardo sugli occhi di Beatrice che a sua volta riflette l’immagine del grifone. Questi si mostra nelle pupille della donna in forme cangianti.

Adesso le tre donne a destra del carro, che manifestano una più elevata condizione, esortano Beatrice a fissare con i suoi occhi il poeta, svelandosi e offrendo il suo sorriso. Dante assiste ad una visione di bellezza sfolgorante, impossibile da descrivere con i versi.

Canto XXXII

Nel Paradiso Terrestre: la visione mistica del carro trasformato in mostro

Le tre donne costringono Dante a distogliere lo sguardo da Beatrice perché è durato troppo a lungo. Infatti il poeta prova un lieve accecamento e solo in un secondo momento riacquista la facoltà di vedere.

La processione mistica si è volta adesso nella direzione contraria rispetto a quella dalla quale era comparsa e Dante, Matelda e Stazio, seguono il carro trainato dal grifone.

Il carro, dopo aver percorso lo spazio coperto da tre frecce scagliate in successione, si ferma vicino ad un albero e Beatrice scende. La pianta è totalmente priva di foglie e così alta che mai nessuno ha visto qualcosa di simile. Il grifone fissa il timone all’albero, dopodiché questo immediatamente fiorisce con fiori rosa e violetti.

Dante cade in un sonno improvviso che non può dire quanto sia durato. Poi si risveglia quando Matelda lo esorta ad alzarsi e assiste ad una violenta esplosione di luce. La donna gli mostra Beatrice seduta vicina alla pianta, a guardia del carro, circondata dalle sette donne, mentre il resto della processione vola in cielo.

Beatrice rivela al poeta che presto salirà in Paradiso con lei e lo esorta ad osservare attentamente cosa accade adesso. Dall’alto si vede scendere un’aquila che attacca il carro, che comincia ad oscillare come una nave nella bufera. Poi sopraggiunge una volpe affamata che si lancia contro il suo fondo mentre alcune penne dell’aquila sono deposte su di esso.

La terra si spalanca e ne esce un drago e con la coda malevola stacca una parte del carro, che ora è totalmente coperto dalle penne. Il carro subisce infine una orribile metamorfosi e acquisisce tre teste sul timone e una per ogni lato di esso. Una prostituta siede alla guida del nuovo mostro mentre un gigante la frusta per poi staccare il carro dall’albero e condurlo in una foresta.

Canto XXXIII

Nel Paradiso Terrestre: Dante beve l’acqua dell’Eunoè

Beatrice, con le sette donne che la precedono e piangono la distruzione di Gerusalemme, si avvicina a Dante e gli chiede il motivo per cui non le rivolge domande; lo invita a mettere da parte il suo senso di vergogna, dato che il carro è stato distrutto dal drago e non esiste più e la giustizia divina punirà inesorabilmente i responsabili.

L’aquila che ha perduto le sue penne dentro quel carro avrà dopo poco tempo un suo erede e sarà incaricato da Dio di eliminare per sempre la prostituta e il gigante.

Dante deve rammentare le parole di Beatrice quando tornerà nel mondo dei vivi, per comunicarle agli uomini. Beatrice osserva che colui che si è reso responsabile di derubare i frutti dell’albero sarà severamente punito dalla giustizia divina. Lo stesso Adamo, per aver mangiato un frutto di quella pianta attese cinquemila anni nel Limbo prima che Cristo lo portasse con sé in Paradiso.

Il poeta ammette che le parole e le argomentazioni di Beatrice sono per lui oscure e la beata spiega come la sua mente non abbia ancora le possibilità di seguire il suo pensiero e che la strada da lui seguita è lontanissima dalla verità.

Dante osserva come non rammenti di aver lasciato il culto di Beatrice in vita, ma non può in effetti ricordarlo avendo bevuto le acque del Lete ed essendo stata quell’azione improntata al male.

Il corteo formato dalle sette donne che precedono Beatrice e poi Matelda, Dante e Stazio raggiunge un luogo aperto dove il poeta da una sorgente vede sgorgare le acque di due fiumi, il Lete e l’Eunoè. La beata esorta Matelda a condurre Dante e Stazio presso l’Eunoè.

Il poeta beve l’acqua dell’Eunoè, tanto dolce e fresca che non vorrebbe mai smettere di dissetarsi. Adesso la sua anima è purificata e predisposta per l’ascesa in Paradiso.

Paradiso

Canto I

L’ascesa di Dante al Paradiso

Dante è stato nell’Empireo e ha visto cose che nessuno può ricordare o narrare. La memoria non è in grado di seguire la ragione quando si immerge nella luce di Dio. Tuttavia il poeta cerca di ricordare ciò che ha visto e questo sarà l’argomento della sua poesia. Chiede adesso ad Apollo che lo aiuti nella stesura dei suoi versi. Fino ad allora gli era bastata l’ispirazione delle muse ma ora gli servono sia loro che lo stesso Apollo per portare a termine il suo arduo compito. Se il poeta riuscirà a rendere le immagini del Paradiso potrà incoronarsi del sacro alloro che cinge i grandi. Dante commenta anche come sia raro che la dignità dell’alloro vesta ora la fronte di un imperatore o di un poeta, desiderosi piuttosto di raccogliere unicamente i frutti di beni terreni ed effimeri.

È l’alba quando Dante vede Beatrice fissare immobile il sole e imitando lei, anche il poeta volge il suo sguardo sull’astro, al di là delle sue possibilità umane. Dante lo vede sfavillare come un ferro incandescente che raddoppia la intensità della luce del giorno. Fissa poi gli occhi su Beatrice e avverte la sensazione di oltrepassare i suoi limiti umani, di trasumanare e di sollevarsi verso il cielo. Il poeta prova nel contempo la straordinarietà della musica e della grande luce che lo inonda e desidera conoscerne la causa. Beatrice spiega che il poeta non si trova più sulla Terra e che lui è asceso verso l’alto con la rapidità di un fulmine e con un volo del tutto naturale. Ma Dante desidera sapere come sia possibile che lui corpo pesante possa salire attraverso corpi tanto leggeri. Beatrice risponde che l’universo è creato a immagine di Dio secondo un ordine prestabilito. Tutte le creature in base a questo ordine ricevono una inclinazione e questo riguarda sia quelle prive di intelligenza che quelle dotate di intelligenza e di capacità di amare. La provvidenza che ha reso perfetto e quieto l’Empireo, nel quale ruota il cielo del Primo Mobile che ha maggiore velocità, fa sì che l’inclinazione conduca naturalmente l’uomo verso quello. Ma ciò non sempre si verifica e l’uomo può indirizzarsi verso una meta diversa, traviato da un falso bene. Beatrice esorta Dante a non meravigliarsi della sua ascesa come non si meraviglierebbe di un fiume che scorre dalla montagna verso la foce.

Canto II

Nel I cielo della Luna

Beatrice rivolge il suo sguardo verso il cielo e Dante orienta il proprio su di lei. Il poeta si accorge di essere giunto in un luogo dove viene colto da una visione stupefacente: gli pare di essere avvolto da una nube di luce, fitta e compatta, simile a un diamante attraversato dai raggi del sole.  Beatrice gli annuncia che sono giunti nel I cielo della Luna. Dante e Beatrice sono penetrati in quella pietra come un raggio di luce penetra l’acqua senza scomporla.

Dante chiede alla sua signora che cosa sono le macchie scure della luna, che tante domande sollecitano negli uomini sulla Terra. Lui stesso crede che siano generate da una maggiore densità o rarefazione della materia nel corpo celeste. La beata confuta le false opinioni elaborate dall’uomo e decide di illuminare Dante con la luce della verità. L’Essere che proviene dall’Empireo emana nel Primo Mobile che gira velocissimo; dal Primo Mobile si distribuisce nel cielo successivo, delle Stelle Fisse, con tante differenze quante sono le stelle; da quel cielo a tutti gli altri pianeti si distribuiscono queste virtù distinte. Ogni cielo dunque riceve il suo influsso da quello superiore e lo cede a quello inferiore. Il movimento e le virtù delle sfere celesti provengono dalle intelligenze angeliche, come accade per il cielo delle Stelle Fisse che li riceve dall’impronta dei cherubini. L’intelligenza divina dispiega il suo valore moltiplicandolo per le stelle dei diversi cieli. In ragione della letizia della intelligenza divina da cui deriva, la virtù degli angeli risplende di gioia. Da questa virtù, da questa maggiore o minore letizia, si creano le differenze che generano nella Terra l’impressione di luce o oscurità, non da una maggiore o minore densità.

Canto III

Nel I cielo della Luna: l’incontro con Piccarda

Dante riconosce in Beatrice colei che gli ha svelato finalmente la verità sulle macchie lunari e vorrebbe proseguire il discorso, quando viene colto da una nuova visione: vede dei volti pronti a parlare, dall’aspetto di immagini indistinte, come fossero riflesse da uno specchio. Il poeta si volta come se si trovassero dietro di lui, ma non scorge niente. Beatrice sorride e rivela che sono reali le anime che ha scorto, poste nel cielo della Luna per inadempienza ai loro voti. La beata lo invita a parlare con loro e a credere alle loro parole, perché la luce divina, fonte di verità, le rende felici. 

Il poeta si rivolge a quella che sembra più desiderosa di parlare e le chiede il suo nome e la sorte che condivide con gli altri spiriti. Ella risponde che in vita fu una suora e, sebbene più bella adesso nella luce del Paradiso, è convinta che Dante la possa riconoscere in Piccarda Donati. Gli spiriti di quel cielo a cui appartiene si conformano agli ordini dello Spirito Santo e gioiscono di questo e della loro condizione bassa, dovuta al fatto che i voti da loro pronunciati non furono mantenuti o lo furono in modo incompleto. Dante domanda allora se le anime beate di questo cielo non desiderino una collocazione più alta per unirsi maggiormente a Dio. Piccarda sorride e poi con lieto amore risponde che la carità rende quiete le loro anime e fa loro desiderare solo ciò che hanno. Desiderare di più le porterebbe a contrastare la volontà di Dio. E nella volontà di Dio risiede la loro pace.

Dante chiede allora quali furono i voti che non riuscì a mantenere. Piccarda rivela che ancora ragazza fuggì dal mondo per indossare il velo delle clarisse devote a santa Chiara, beata in un cielo più alto. Ella fu poi rapita da uomini dediti solo al male e solo Dio sa quale fu in seguito la sua vita. Piccarda presenta poi un’altra beata alla sua destra che fu suora come lei e ugualmente fu costretta a lasciare il velo e trascinata nel mondo contro la sua volontà. È la grande Costanza d’Altavilla madre dell’imperatore Federico II. 

Dopo aver parlato Piccarda svanisce come un pesante oggetto nell’acqua profonda. Dante rivolge di nuovo lo sguardo su Beatrice, rimanendo abbagliato dal suo splendore.

Canto IV

Nel I cielo della Luna: sulle anime che mancarono ai voti

Dante rimane in silenzio ma il desiderio di sapere è dipinto sul suo volto. Beatrice che legge nella sua mente comprende come Dante non si spieghi perché la violenza compiuta su una persona che agisca nel bene diminuisca il premio della sua beatitudine. 

Beatrice spiega che i beati che sono più vicini a Dio non hanno sede in cieli diversi da quelli delle anime che gli sono apparse ora. Tutti illuminano con la loro luce il primo cielo dell’Empireo e vivono la loro beatitudine in misura diversa a seconda che sentano più o meno la virtù di Dio. Piccarda e gli altri spiriti sono apparsi a Dante, non perché risiedano nel cielo della Luna, ma per esprimere il loro grado di beatitudine, che è più basso, collegato al cielo che riceve minor influsso divino. 

Le anime di coloro che mancarono ai voti, che hanno subito una violenza pur non assecondandola, non possono essere comunque scusate. Se la loro volontà si è abbassata, molto o poco, a causa della violenza, in parte l’hanno assecondata. E così hanno fatto Piccarda e Costanza, che potevano rientrare nella quiete del chiostro e tornare così sulla strada da cui erano state trascinate via, non appena libere dalla violenza. Beatrice intende risolvere un altro dubbio di Dante: un’anima beata non può mentire perché si trova sempre vicino a Dio che è la verità suprema. Ma Costanza in parte lo ha fatto perché conservò l’attaccamento al velo di suora pur accettando contro voglia una vita diversa. La violenza dell’uomo si è unita alla volontà di Costanza e ambedue non possono essere scusate. Si può distinguere tra la volontà assoluta di Costanza che continua a non volere, da quella relativa di Piccarda che acconsente per evitare altro male. 

Dante rivela alla beata quanto le sue parole lo appaghino e lo confortino e quanto lo avvicinino alla verità. Un’ultima domanda tuttavia intende porre: può l’uomo compensare i voti inadempiuti con altre opere buone perché non siano di scarso peso sulla bilancia del giudizio dei cieli? Beatrice non risponde e si ritira.

Canto V

Dal cielo I della Luna al II cielo di Mercurio

Beatrice intende rispondere alla domanda di Dante che chiede se si può contraccambiare un’altra opera meritoria offerta in luogo del mancato adempimento del voto, in modo che l’anima non subisca la punizione divina. La beata afferma che il più grande dono concesso dal cielo agli uomini e agli angeli è il libero arbitrio. Quando l’uomo fa sacrificio di questo dono cosa può mai offrire come risarcimento di un voto mancato? Il patto con Dio non si può cancellare. E nessuno può cambiare secondo la propria volontà la promessa di cui si è fatto carico. L’uomo non può prendere voti alla leggera, deve mantenersi fedele ad essi.

Dopo aver parlato così Beatrice si rivolge verso la parte del cielo che appare più luminosa, imponendo il silenzio a Dante. 

Il poeta e la sua guida ascendono rapidissimi al secondo cielo di Mercurio che si illumina maggiormente della luce emanata dalla beata. Dante scorge più di mille anime splendenti e piene di gioia (anime operanti per la gloria terrena) accorrere verso di loro, disposte a rivelare la loro sorte e rispondere alle domande del poeta. Questi domanda ad una di esse, che lo aveva esortato a porre i suoi quesiti, chi sia e quale sia il grado di beatitudine di quel cielo.

Canto VI

Nel II cielo di Mercurio: l’incontro con Giustiniano

Lo spirito rivela di essere Giustiniano, l’imperatore, che narra come avesse governato il mondo da Costantinopoli, dopo che l’aquila, simbolo dell’impero, era stata condotta da Costantino in quella terra, dalla sua sede naturale che era Roma. Lui è stato colui che ha riformato il sistema di leggi latine, togliendo quelle superflue e inutili e che per merito del papa Agapito si era liberato dall’eresia, che gli aveva fatto credere che Cristo avesse una sola natura, quella divina. Una volta nella fede della Chiesa, si era dedicato interamente al codice giuridico, affidando le imprese militari a Belisario, cui arrisero grandi successi.

Giustiniano vuole illustrare a Dante quanta poca ragione guidi coloro che operano oggi contro l’impero, sia chi mostra di sostenerlo (i ghibellini), sia chi lo contrasta (i guelfi). Lo spirito ricorda le antiche imprese che resero grande Roma, quelle di Pallante ad esempio, le vicende degli Orazi e dei Curiazi in Alba Longa, rievoca il tempo dei sette re, le imprese romane contro Brenno, le figure eroiche di Torquato e Cincinnato, le gloriose guerre contro Annibale, l’epoca di Cesare, la vendetta imperiale contro Bruto e Cassio, le vittorie di Ottaviano e il pianto di Cleopatra, il governo di Tiberio sotto il quale l’uomo era riuscito a placare l’ira divina dopo il peccato originale, la punizione degli ebrei colpevoli della crocifissione del Cristo sotto l’imperatore Tito, e poi le azioni di Carlo Magno volte a salvaguardare la Chiesa dai Longobardi. Giustiniano accusa adesso guelfi e ghibellini come causa di tutti i mali della società e non si comprende chi fra le due fazioni sbagli di più.

Lo spirito spiega come il cielo di Mercurio si corredi delle anime buone di coloro che si impegnarono nella vita attiva per conseguire onore e fama e poiché essi avevano deviato da Dio per raggiungere questo scopo, adesso vivono la loro beatitudine con minore intensità. Questa tuttavia costituisce la perfetta corrispondenza tra il loro premio e il merito delle loro azioni. Il Paradiso vive di una dolce armonia creata da gradi diversi di gioia. 

Giustiniano presenta un’altra anima di quel cielo, quella di Romeo di Villanova, ministro di Raimondo Berengario, conte di Provenza, che, dopo aver servito il suo signore organizzando lieti e fortunati matrimoni per le quattro figlie, subì le invidie e le gelosie della corte, finendo povero e umiliato.

Canto VII

Nel II cielo di Mercurio: il peccato di Adamo e il sacrificio di Cristo

Dante osserva l’anima di Giustiniano e gli altri spiriti che cantano e danzano e come velocissime scintille scompaiono di fronte a lui. 

Beatrice comprende che il poeta è turbato da un altro dubbio ma non osa esprimerlo, dunque decide di risolverlo: Adamo, spiega la beata, che non era riuscito a porre freno alla sua volontà, condannando se stesso, aveva condannato tutti gli uomini, che furono costretti a vivere per molti secoli nel peccato; questo accadde fin quando il Verbo di Dio non unì nell’unica persona del Cristo, per amore dello Spirito Santo, la natura umana a quella divina. La pena della croce comminata a Gesù fu giusta in rapporto alla sua natura umana, che doveva scontare il peccato originale, ma ingiusta in rapporto alla natura umana unita a quella divina. La giusta punizione, quella della natura umana, fu sancita da un giusto tribunale. 

Beatrice vede tuttavia che Dante non comprende perché Dio abbia scelto, per la redenzione degli uomini, proprio quella punizione. La beata spiega che ciò che è creato da Dio è eterno, è libero, è conforme a Lui, e di tutto questo si avvantaggia l’uomo. Ma se una di queste qualità decade anche l’uomo decade dalla sua alta condizione. Il peccato lo priva della libertà e lo rende dissimile dal suo Creatore e non può tornare alla sua originaria dignità, se non per una giusta pena che bilanci le sue cattive azioni. La natura umana aveva peccato con Adamo, ma l’uomo da solo non poteva riparare al suo errore. La carità di Dio usò allora tutti i suoi mezzi per risollevarlo dalla sua condizione. Cristo, il figlio di Dio, si umiliò fino a reincarnarsi. Dio donò se stesso per redimere l’umanità. 

Beatrice a questo punto introduce un’altra spiegazione. Ci si potrebbe domandare perché le cose create sono destinate a perire e a corrompere le proprie forme. Solo negli uomini però, a differenza di animali e vegetali, la somma bontà divina ha infuso l’anima intellettiva che li porta naturalmente a ricongiungersi a lei. E questo spiega il dogma della resurrezione dei corpi, se si considera il modo in cui furono creati Adamo ed Eva.

Canto VIII

Ascesa al III cielo di Venere: l’incontro con Carlo Martello d’Angiò

Dante non si accorge subito di essere salito al cielo di Venere, ma del fatto di esservi dentro è testimonianza Beatrice, che vede risplendere di maggiore bellezza. In quel cielo il poeta scorge muoversi altre luci in cerchio con minore o maggiore rapidità in rapporto alla diversa intensità della visione di Dio. Quelle luci (gli spiriti amanti), rapidissime come il lampo, si avvicinano a Dante e Beatrice, intonando dolcemente l’Osanna

Una delle anime si rivolge al poeta e spiega che esse sono pronte a rispondere alle sue domande. Esse si muovono roteando con le intelligenze angeliche dei Principati, con il medesimo desiderio di contemplare Dio. Dante si rivolge allo spirito che ha parlato, che diventa ancora più splendente e chiede chi sia. L’anima risponde che il poeta non può riconoscerlo tanto è il suo bagliore, ma che egli lo ha amato molto: egli si presenta come l’atteso signore di Provenza e di parte dell’Italia meridionale, incoronato re dell’Ungheria e promesso re della bella Sicilia, nonché discendente di Carlo I d’Angiò e Rodolfo d’Asburgo.

Il suo nome è Carlo Martello d’Angiò, fiero avversario, tuttavia, della politica degli angioini in Sicilia e critico rispetto a quella del fratello Roberto, il cui governo è composto di ministri assetati di ricchezze.

Il poeta domanda allora come da un seme buono si possano generare frutti tanto amari. Carlo risponde che gli influssi degli astri non agiscono sulla stirpe ma sull’indole delle singole persone e le qualità non sono di per sé ereditarie. Una società civile armonica nasce dal fondersi delle differenze, ma la libertà dell’uomo si oppone con ostinazione per fini propri agli influssi delle stelle. Un seme in un terreno inadatto non produce mai buoni frutti. Esaù si differenziava da Giacobbe, Romolo era nato da un padre umile. Gli uomini costringono a farsi sacerdote uno adatto a cingere la spada, e fare re un altro nato per pronunciare sermoni. Per questo il cammino dell’umanità è fuori dalla retta via.

Canto IX

Nel III cielo di Venere: dall’ardente amore alla beatitudine

L’anima di Carlo Martello d’Angiò, concluso il suo discorso, si volge alla luce di Dio che appaga il suo desiderio di beatitudine, mentre Dante scaglia un’invettiva contro gli uomini che per dedicarsi ai beni materiali, distolgono le loro menti da un così grande bene.

Il poeta viene avvicinato ora da un’altra beata che legge nella sua mente le domande che Dante vorrebbe rivolgerle. Rivela di chiamarsi Cunizza da Romano, sorella del famoso tiranno Ezzelino III, nata nella terra di Treviso che, per l’inclinazione all’amore cui rispose in vita, gioisce della sua minore condizione di beatitudine in Paradiso. Una luminosa anima le è vicina in quel cielo, e di lei è rimasta grande fama nel mondo, che durerà per oltre cinque secoli, per quanto la sua vita fu eccellente. Oggi il popolo che abita le sue terre, aggiunge Cunizza, non sa quanti dolori e castighi dovrà pagare e vedrà le acque delle paludi di Padova mutarsi in sangue e la città di Feltre piangerà le colpe del proprio empio vescovo.

L’altra anima presentata da Cunizza, Folchetto da Marsiglia, un trovatore che divenne vescovo di Tolosa e partecipò alla crociata contro gli albigesi, si mostra a Dante splendente come un rubino e spiega come in quel cielo le anime gioiscano dell’amore divino che dispone e provvede: aggiunge che lo spirito che risplende accanto a lui è quello di Raab, la meretrice di Gerico, che sostenne Giosuè nella conquista della città e che salì al loro cielo prima di ogni altro beato. 

Folchetto chiude il suo discorso attaccando Firenze, nata da Lucifero, che ha coniato il fiorino, moneta capace di rendere avidi e violenti anche gli agnelli. Alla medesima corruzione, provocata dal desiderio di ricchezza, sono votati i papi e i cardinali, ma il colle Vaticano e i luoghi celebri di Roma saranno presto liberati da questa profanazione.

Canto X

Ascesa al IV cielo del Sole: la corona degli spiriti sapienti

Dante invita il lettore ad alzare il suo sguardo verso le sfere celesti a contemplare gioiosamente l’opera di Dio, per comprendere quanto amore e quanta sapienza ha creato la sublime armonia che ordina l’universo. Il poeta confessa che non si è accorto di essere salito nel cielo del Sole, l’astro che è il più importante ministro della natura. Dante è abbagliato dallo splendore delle anime che appaiono in quella dimensione (gli spiriti sapienti), tanto da non riuscire a descriverle e Beatrice lo esorta a ringraziare la luce di Dio che lo ha innalzato così.

I beati si dispongono in una corona e pongono Beatrice e Dante al centro, tanto dolci nelle note del loro canto quanto splendenti nelle loro immagini. Cantando ancora quei beati girano tre volte intorno a loro e da quella schiera si ode una voce disposta a soddisfare la sete di verità del poeta. L’anima rivela di aver fatto parte del gregge di san Domenico, di essere san Tommaso d’Aquino e che lo spirito alla sua destra è Alberto Magno. Il beato presenta poi altri confratelli di quella sublime schiera: Francesco Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, col quale mai nessuno ha potuto competere in saggezza, Dionigi l’Aeropagita, Paolo Orosio, Severino Boezio, il cui corpo riposa nella basilica di san Pietro, Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Riccardo di San Vittore, Sigieri di Bramante.

Il glorioso cerchio dei beati comincia a muoversi e accorda tutte le voci in una armonia che non si può realizzare se non in Paradiso.

Canto XI

Nel IV cielo del Sole: il domenicano san Tommaso racconta la vita di san Francesco

Il poeta è salito con Beatrice nel cielo del Sole, accolto dagli spiriti sapienti, libero dagli affanni che, osserva polemicamente Dante, spingono gli uomini in modo insensato a curarsi di ingannevoli beni terreni: così fanno i giuristi, i medici, gli ecclesiastici, gli uomini di stato che si affidano alla politica e all’inganno, i ladri, coloro che si occupano di affari pubblici, i lussuriosi, i pigri.

I beati hanno formato nuovamente la loro corona di luci e ciascuno ha ripreso il posto che in quella occupava in precedenza. La voce di san Tommaso si leva ancora e dichiara di conoscere le cause dei pensieri del poeta e intende chiarire i suoi dubbi. Il beato spiega che la provvidenza divina aveva inviato nel mondo, per aiutare la Chiesa di Cristo ad avanzare verso Dio, due capi, san Francesco e san Domenico, che le facessero da guida, il primo con l’ardore di carità di un serafino, il secondo con la sapienza di un cherubino.  San Tommaso intende parlare solo del primo, san Francesco, nato nelle terre alle pendici del monte Subasio, nella città di Assisi. Ancora giovane, Francesco aveva deciso di far sentire in Terra il conforto della sua virtù e di sposare la povertà: per questa donna era entrato in crisi col padre, e questa donna amò sempre appassionatamente. La Povertà rimasta priva di Cristo, suo primo marito, era rimasta in solitudine per più di mille e cento anni, fino all’arrivo di Francesco. La loro unione provocò negli altri pensieri di santità, come nel venerabile Bernardo di Quintavalle che, per primo, fu del santo fedele seguace, poi in Egidio e Silvestro. Quindi Francesco e la sua schiera, privi di ogni vergogna per il loro miserabile aspetto, si presentarono a papa Innocenzo III e proposero la regola del nuovo ordine monastico. E questo episodio fece crescere il numero dei poverelli al seguito del santo e l’ordine ricevette una seconda approvazione da parte di papa Onorio III. Francesco, per desiderio di martirio, si recò in seguito a predicare presso il sultano d’Egitto, senza trovare tuttavia ascolto tra quei popoli; fece rientro poi nella sua terra e prese dimora sul monte della Verna, dove da Cristo ricevette le stimmate. Giunto il momento della morte raccomandò ai suoi poverelli di rimanere fedeli alla povertà e per il suo corpo non volle altra bara che la nuda terra. 

San Domenico fu degno fratello di Francesco fondatore dell’ordine cui appartiene Tommaso. Ma il suo gregge (i domenicani), aggiunge san Tommaso, è diventato ghiotto oggi di soli beni materiali, e le pecore vagano smarrite per pascoli malati.

Canto XII

Nel IV cielo del Sole: il francescano san Bonaventura narra la vita di san Domenico

Dopo che san Tommaso ha pronunciato l’ultima parola e la corona dei beati inizia a ruotare su se stessa, ecco che un’altra corona la circonda e si accorda al suo movimento, mentre si levano canti dolcissimi. Le due ghirlande di rose beate, che danzano e levano sublimi note con le loro voci, improvvisamente, si fermano.

Dante ode una di esse, san Bonaventura, che rivela di essere un francescano, il cui l’ardore di carità, come prima aveva fatto il domenicano Tommaso con Francesco, la spinge ora a parlare di san Domenico. Come Domenico e Francesco combatterono per la stessa causa, così insieme deve risplendere in Paradiso e tra gli uomini la loro gloria.

Domenico era nato nella città di Calaruega, governata dal re di Castiglia, e la sua anima, fin dal grembo materno, era stata riempita di virtù. Fu chiamato Domenico e il primo amore che si manifestò in lui fu la povertà. In breve tempo, per amore del vero nutrimento spirituale, divenne dottore in teologia e alla Santa Sede chiese di combattere contro gli eretici in difesa dell’ortodossia. Con l’energia di un torrente in piena si abbatté contro le cattive piante dell’eresia, là dove le resistenze erano più forti. E lui fu seguito da diversi discepoli che operarono in difesa della Chiesa cattolica. 

Il carro della santa Chiesa che vinse contro gli eretici si mosse così su due ruote, san Domenico e san Francesco. Ma i francescani, cui Bonaventura appartiene, hanno deviato dal solco tracciato dal loro fondatore e sono così corrotti che sembrano camminare all’indietro. L’anima rivela solo adesso il suo nome a Dante, ovvero quello di Bonaventura di Bagnoregio, che presenta altri beati come lui: Illuminato da Rieti, Agostino d’Assisi, Ugo di San Vittore, Pietro Mangiadore e Pietro Spano, il profeta Natan e san Crisostomo, Anselmo d’Amato e Donato, Rabano Mauro e Gioacchino da Fiore.

Canto XIII

Nel IV cielo del Sole: sulla creazione della materia

Dante appare abbagliato dallo splendore dalla costellazione di beati e della danza delle corone che si svolge in modo circolare intorno a lui, con le voci che alzano inni alla Trinità. 

San Tommaso si rivolge ancora a Dante desideroso di risolvere il suo secondo dubbio: si crede che nel petto di Adamo, primo uomo, e in quello di Cristo sia stata infusa dalla potenza divina tutta quanta la sapienza che può essere recepita dalla natura umana. Allora com’è possibile che Salomone non abbia avuto rivali, in saggezza, nella storia dell’uomo?

Le creature immortali, spiega Tommaso, e quelle mortali non sono che una luce riflessa del Verbo che Dio genera con un atto d’amore. La luce che si origina dalla Trinità raccoglie i suoi raggi riflettendosi nei nove cieli angelici e da questi scende di cielo in cielo fino agli elementi del mondo terrestre, riducendosi tanto che non può che produrre creature di breve durata, intendendo con queste animali, vegetali e minerali. La materia di queste creature non è sempre uguale e riflette più o meno la luce divina. Un albero nasce con frutti migliori di un altro, un uomo con doti intellettive diverse da un altro. Ma se lo Spirito Santo imprime sulla creatura la sapienza del Verbo allora in questa creatura si ottiene tutta la perfezione possibile. Così accadde per Adamo, così per il Cristo. 

Allora perché Salomone fu senza eguali per saggezza? Salomone chiese tanta sapienza quanta fosse necessaria per essere un re e non per conoscere i segreti dell’universo. E Salomone, aggiunge Tommaso, fu senza pari per saggezza tra i re che sono sìnumerosi, ma pochi quelli buoni. 

Questa spiegazione deve servire a Dante per abituarlo a porre freno ai suoi giudizi, perché un giudizio precipitoso fa cadere in errore e non permette alla mente di riesaminarlo. Così è accaduto per i filosofi greci, così per gli eretici. Un pruno che in inverno appare secco, in primavera può fiorire; un ladro e un povero che fa l’elemosina non devono essere considerati come già giudicati da Dio, perché il primo può riscattarsi e il secondo perdersi.

Canto XIV

Ascesa al V cielo di Marte: la croce degli spiriti combattenti

Beatrice rivolta ai beati del cielo del Sole chiede loro di spiegare a Dante un’altra verità, cioè se la luce che adorna la loro anima li accompagnerà anche quando saranno riuniti al corpo.

Alla richiesta della beata le due corone di spiriti sapienti mostrano nuova gioia nella danza e nel canto. Dante ode una voce piena di modestia nella corona più piccola, che rivela come la loro luce irradierà finché durerà la beatitudine del Paradiso; anche quando i beati riprenderanno il loro corpo dopo il Giudizio Universale, si intensificherà la luce che si origina dall’ardore di carità, perché le loro persone, ora complete, saranno più gradite a Dio.

Dante vede intorno ai beati sorgere una striscia di luce, uguale in luminosità, e gli pare di scorgere nuove anime che si dispongono in cerchio intorno alle altre due corone di beati. La luce diviene così sfavillante che gli occhi del poeta non possono più sostenerla.

Il poeta contempla Beatrice e si vede elevato, insieme alla sua donna, ad un cielo di maggior beatitudine. Egli si accorge di essere salito più in alto, nella luce infuocata della stella Marte che sembra più rossa del solito. Dante, nello splendore rosseggiante di quel cielo, vede delle luci splendenti (gli spiriti combattenti) dentro due fasce che formano una croce, dove si irradia come un lampo la figura del Cristo. Da una estremità a quella opposta della croce e dall’alto in basso si muovono le luci che scintillano maggiormente nell’incontrarsi e nel superarsi e da loro si propaga una melodia che fa cadere in estasi il poeta anche se non comprende il canto. 

Ma Dante non si dimentica di ribadire la bellezza degli occhi splendenti di Beatrice che diviene più potente quanto più la beata sale in alto.

Canto XV

Nel V cielo di Marte: l’incontro con Cacciaguida

Il canto dei beati del cielo di Marte improvvisamente si interrompe, come per ispirare a Dante il desiderio di rivolgere loro delle domande. 

Dal braccio che si stende verso destra della croce corre fino ai suoi piedi una stella di quella splendente costellazione. Il beato si rivolge al poeta chiamandolo sangue del suo sangue, uomo a cui è stata aperta due volte la porta del cielo. 

Dante rimane stupito da quelle parole e dalla gioia grande che arde negli occhi di Beatrice. Il beato riprende la parola e gloria Dio così generoso nei confronti della sua discendenza. Il suo desiderio di vedere Dante è stato appagato grazie a Beatrice che ha donato al poeta le ali per salire a quel cielo. Lo spirito confessa di poter vedere nella luce divina i pensieri di Dante prima ancora che siano concepiti ma ugualmente lo prega di far risuonare con la sua voce la sua volontà e i suoi desideri. Il poeta risponde di non poter che ringraziare la sua paterna accoglienza e gli chiede di pronunciare il suo nome. 

Lo spirito rivela di essere il capostipite della famiglia di Dante (Cacciaguida), suo bisavolo e padre di colui che da più di cento anni sta girando sul monte del Purgatorio (Alighiero I) nella cornice dei superbi. Firenze all’interno della cerchia di mura antiche viveva, ai suoi tempi, in pace, nella moderazione e nella castità, non mostrava persone appariscenti nel vestire e nell’adornarsi, o figlie che impaurivano coi loro comportamenti i padri, o costumi lussuriosi. Bellincion Berti camminava indossando una cintura di cuoio, i membri della famiglia dei Nerli si accontentavano di un mantello di pelle sfoderata, le donne erano contente di lavorare al fuso e ciascuna era sicura della propria sepoltura.

Il beato rivela di essere nato in una così bella comunità di cittadini e di essere stato battezzato in battistero col nome Cacciaguida. Aggiunge di aver seguito nella seconda crociata l’imperatore svevo Corrado III e di essere stato ucciso in Terra Santa per mano del turpe popolo musulmano, per giungere alla serena beatitudine di quel cielo.

Canto XVI

Nel V cielo di Marte: l’antica Firenze di Cacciaguida

Dante si rivolge all’avo Cacciaguida chiamandolo padre e confessando la gioia che riempie il suo animo in seguito a quell’incontro. Il poeta vuol sapere chi furono i suoi antenati, e quali anni furono importanti nella sua fanciullezza e quanti erano gli abitanti di Firenze e quali le famiglie più degne. La luce del beato si fa più splendente e con voce dolce e soave racconta che i suoi avi e lui stesso nacquero nel sestiere di Porta San Pietro e questo è quanto basta dire dei suoi antenati. La popolazione della città, oggi mescolata con quella del contado, era allora di puro sangue fiorentino. La mescolanza delle famiglie fu l’inizio del male di Firenze. Cacciaguida elenca i nomi di alcune famiglie illustri già in decadenza e altre il cui prestigio era ancora intatto. Ne indica altre che furono grandi e dignitose e nessuno a Firenze aveva ragione di lamentarsi né la città aveva subito alcuna sconfitta.

Canto XVII

Nel V cielo di Marte: Cacciaguida e la profezia dell’esilio

Dante manifesta un ardente desiderio di porre altre domande a Cacciaguida e Beatrice lo esorta a farlo. Chiede al suo avo, in considerazione della sua capacità, contemplando Dio, di vedere le cose prima che accadano, quale destino sia a lui riservato, considerando le profezie terribili riguardo alla sua sorte che ha udito dai dannati nell’Inferno e benché si senta pronto ad affrontare ogni avversità. 

Il beato risponde con parole chiare e con linguaggio esplicito alla richiesta del suo pronipote. Egli rivela di vedere nella mente di Dio il futuro che si sta preparando a Dante: il poeta dovrà lasciare Firenze, perché il suo esilio è voluto e progettato da papa Bonifacio VIII che a Roma mercanteggia i beni di Cristo. 

Il poeta dovrà abbandonare ogni cosa che gli è più cara e proverà come sia amaro il pane altrui e come sia doloroso salire le scale di palazzi di altri famiglie. E di maggior peso sarà per il poeta la compagnia di uomini malvagi e sciocchi della sua fazione che alla fine si rivolteranno contro di lui. Il primo rifugio per Dante sarà presso Bartolomeo della Scala, signore di Verona, che si mostrerà pieno di amorevoli attenzioni. Con lui vedrà Cangrande della Scala, le cui imprese saranno degne di memoria e i cui atti di generosità saranno riconosciuti anche dai nemici. Cacciaguida esorta il poeta a raccomandarsi a lui in quanto per merito suo molti uomini muteranno condizione, sia ricchi che poveri.

Queste sono le insidie che attendono il poeta; egli non deve comunque portare odio ai suoi concittadini perché la sua vita proseguirà ben oltre la loro malvagità.

Dante risponde come il tempo si muova contro di lui e che per questo è bene che si armi di prudenza e che non perda luoghi dove rifugiarsi a causa della asprezza della sua poesia. Nell’Inferno e poi nel Purgatorio e ora innalzandosi di cielo in cielo, Dante ha conosciuto cose che se riportate nel mondo dei vivi avranno per molti un sapore fortemente sgradito. Ma se si dimostra tenue amico della verità rischia di perdere la sua fama tra i posteri.

Cacciaguida si fa più splendente e risponde così ai dubbi di Dante: coloro che hanno la coscienza macchiata dalla vergogna troveranno dure le sue parole. Purtuttavia egli deve allontanare ogni menzogna ed esprimere con chiarezza ciò che ha visto. La sua poesia sarà spiacevole inizialmente ma poi si rivelerà per gli uomini il più degno nutrimento morale. Le sue accuse percuoteranno come il vento i personaggi più famosi, per questo nell’oltretomba gli sono state mostrate solo le anime di coloro che sono noti. Infatti la mente di un lettore non si interessa ad esempi che siano riferiti a personaggi sconosciuti od oscuri né ad argomenti non degni di attenzione.

Canto XVIII

Ascesa al VI cielo di Giove: gli spiriti giusti formano le lettere dell’alfabeto

Mentre Cacciaguida splende nella luce divina, Dante si volge a contemplare Beatrice la cui eterna bellezza, irradiata da Dio, lo appaga e lo libera da ogni altro desiderio. La beata esorta Dante ad ascoltare Cacciaguida desideroso di parlargli ancora.

Lo spirito rivela come, in quel quinto cielo vi siano anime beate che sulla Terra combatterono per la fede ed ebbero grande fama e invita Dante ad osservare i bracci della croce: Cacciaguida indica Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d’Orange, Renoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo. Quindi si unisce a quelle.

Contemplando ora Beatrice e vedendo la sua bellezza divenire più fulgida, il poeta si accorge di essere salito in un cielo superiore, quello di Giove, dall’abbagliante biancore. Egli vede, in quella nuova dimensione, le luci sfavillanti di carità dei beati (gli spiriti dei giusti) che sono lì a formare le lettere dell’alfabeto. Girando in volo, quelle anime cantano e si dispongono nelle forme ora della D, ora della I ora della L, e dopo tacciono per breve tempo. Appaiono a Dante trentacinque figure tra vocali e consonanti che recitano in latino “Amate la giustizia” e “voi che giudicate la Terra”.  Alla fine le luci si fermano cantando le lodi a Dio formando una M e poi ne scendono altre che si uniscono sulla cima di quella lettera, e poi altre ancora, più di mille bagliori, che da quella cima risalgono verso l’alto. Quando tutte si sono fermate al loro posto, il poeta distingue, nelle tracce splendenti che hanno disegnato, il collo e la testa di un’aquila d’oro fiammeggiante. Un altro gruppo di beati completano con il loro disegno il corpo di quell’aquila. 

Dante si rivolge ai beati della corte celeste che preghino per gli uomini che sulla Terra sono del tutto sviati dietro al malvagio esempio del papa e del clero. Il poeta si rivolge al pontefice (Giovanni XXII) per ricordargli che gli apostoli Pietro e Paolo, che morirono per quella Chiesa che ora egli danneggia, sono ancora vivi in Paradiso, ma lui non se ne interessa pensando solo al Battista effigiato sul fiorino. 

Canto XIX

Nel VI cielo di Giove: l’aquila e il problema della salvezza

Nel cielo di Giove, la bella figura dell’aquila, formata dalle anime degli spiriti giusti simili a rubini e unite insieme, si mostra a Dante. Il poeta ode pronunciare dal becco dell’animale, come unica voce di mille beati, delle parole che ricordano come l’aquila, che rappresenta la giustizia, abbia lasciato in Terra un ricordo di sé che anche i malvagi rispettano. 

L’aquila, che conosce il dubbio che tormenta Dante, continua a parlare, osservando come Dio avesse distinto nel mondo tante parti nascoste e tante manifeste e che la comprensione intellettiva degli uomini non può essere così potente da poter comprendere Dio stesso. L’uomo non trova una luce se questa non è così potente da condurlo dentro la giustizia divina. E questa luce può scaturire solo dal cielo, mentre ogni conoscenza umana legata unicamente al mondo ingannevole dei sensi, lascia gli individui avvolti nelle tenebre o nei peccati della carne o nella corruzione generata da essi. 

Dante chiede perché venga condannato un uomo pur buono e senza peccato, che non abbia mai conosciuto Dio e non sia stato battezzato, e non abbia mai potuto conoscere la vera fede; l’aquila risponde chi sia mai Dante per ergersi a giudice. La volontà divina, che è buona per sua natura, non si è mai divisa da se stessa ed è giusto tutto ciò che si conforma ad essa. È la volontà divina che irradiandosi genera il bene creato. 

L’aquila vola con le ali mosse da tanti beati in armonia, mentre Dante la osserva. Il giudizio di Dio, prosegue l’aquila, è incomprensibile agli uomini. Nel Regno dei cieli non è mai potuto ascendere chi non ha mai creduto in Cristo. Ma molti di quelli che hanno creduto in lui sono meno vicini a Dio rispetto ad altri che non conoscono nemmeno il nome di Cristo. E anche un pagano condannerà quei cristiani che hanno compiuto azioni ingiuste. Nel libro della mente di Dio si vedranno i misfatti di Alberto d’Asburgo o di Filippo il Bello, la tracotante sete di potere dei re di Scozia e d’Inghilterra, il lusso sfrenato di Ferdinando IV di Castiglia, le cattive azioni dello Zoppo di Gerusalemme, la cupidigia che governa la Sicilia, quel che sono il re del Portogallo o di Norvegia, o i malgoverni d’Ungheria e di Navarra.

Canto XX

Nel VI cielo di Giove: la salvezza dei non cristiani

L’aquila del cielo di Giove, di fronte a Dante, tace, sostituendo ora alle parole il canto. Al poeta sembra di udire provenire dal suo collo un mormorio come quello di un fiume che scende dalla roccia, che nuovamente diviene voce. 

L’aquila esorta il poeta ad osservare il suo occhio e gli spiriti giusti che lo formano. L’anima che risplende in luogo della sua pupilla fu Davide, colui che trasferì l’arca santa; i cinque beati che costituiscono il ciglio sono Traiano che consolò la vedova per la perdita del figlio, Ezechia che chiese di ritardare la morte per pentirsi, Costantino che, con buona intenzione ma cattivi effetti, cedette Roma al papa, Guglielmo d’Altavilla la cui terra piange ora per il malgoverno di Carlo II d’Angiò. Ma il quinto beato è il troiano Rifeo che conosce ora i misteri della Grazia divina. Dante rimane turbato da questa rivelazione e l’aquila risponde che il regno dei cieli ammette solo l’ardente amore di carità e la speranza dell’uomo che vince la volontà divina. Traiano e Rifeo non uscirono dai loro corpi come pagani ma cristiani, credendo il primo in Cristo venuto, il secondo in Cristo venturo. L’anima di Traiano, evocata dal Limbo, tornò a vivere una seconda volta grazie a san Gregorio e credette in Cristo guadagnandosi la salvezza; Rifeo, che era stato infinitamente giusto in vita, ebbe da Dio la conoscenza della futura redenzione cui credette rinnegando il paganesimo.

Gli uomini mortali, aggiunge l’aquila, devono essere prudenti nei loro giudizi perché neppure i beati che contemplano direttamente Dio conoscono ancora tutti i futuri spiriti destinati al Paradiso. E a Dante pare scorgere, mentre l’aquila parla, le due splendenti anime di Traiano e Rifeo muovere le loro luci come il simultaneo battere delle palpebre.

Canto XXI

Ascesa al VII cielo di Saturno: l’incontro con san Pier Damiani

Beatrice, di fronte a Dante, adesso non sorride e spiega che, se lo facesse, il poeta, per l’estremo bagliore, potrebbe essere ridotto in cenere. Adesso sono saliti al settimo cielo di Saturno e Dante deve seguire con la mente i suoi occhi, per comprendere l’immagine che gli apparirà in questa nuova dimensione.

Il poeta vede una scala di colore dorato, dritta verso l’alto, tanto che il suo sguardo non riesce a seguirla. Vede anche scendere giù per i suoi gradini tante luci splendenti che, giunte ad un certo punto, si muovono tutte insieme. Il beato che si ferma più vicino a Dante e Beatrice diviene più sfolgorante e il poeta, su invito della donna, chiede a quella luce il motivo che lo ha spinto a porsi più vicino a lui e perché in quel cielo non possa udire la dolce musica delle sfere celesti. Lo spirito risponde che le anime sante non cantano per lo stesso motivo per cui Beatrice non sorride. Egli rivela di essersi avvicinato solo per accoglierlo gioiosamente e con la luce che lo riveste, non a causa di un maggiore amore rispetto agli altri. La carità divina rende i beati esecutori della volontà di Dio e li distribuisce sulla scala nel modo in cui il poeta può osservare. 

Dante, tuttavia, vuole sapere perché proprio lui, fra tutti, è stato scelto. L’anima risponde che neppure il serafino che contempla più intensamente Dio puòò risolvere il suo dubbio. Ciò che Dante chiede si immerge tanto nella profondità dell’eterna provvidenza che appare inaccessibile alle capacità intellettive di ogni essere creato. E questo Dante deve riferire ai mortali perché non pretendano di spiegare ciò che non può essere da loro compreso.

Il poeta chiede allora umilmente solo il suo nome. Egli risponde che nella terra chiamata Catria tra Umbria e Marche sorge un eremo consacrato a Dio dove lui si votò al servizio dei cieli, nella meditazione contemplativa, cibandosi di pochissimi alimenti. Egli è san Pier Damiani che col nome di Pietro Peccatore esercitò il suo uffizio nel monastero di Santa Maria sulla costa adriatica. Già vecchio, fu eletto cardinale, carica che, osserva il beato, passa ora da una persona indegna ad una peggiore. Gli alti prelati infatti, a differenza di Pietro e Paolo che vivevano poverissimi cibandosi di niente, pretendono servitori che li portino in giro e sono così grassi, vestiti dei loro lunghi mantelli, da non riuscire neppure a montare a cavallo.  A queste parole le luci si fanno più sfolgoranti, si fermano intorno a Pier Damiani e alzano in cielo un grido altissimo.

Canto XXII

Nel VII cielo di Saturno: l’incontro con san Benedetto

Dante, turbato dal grido potente lanciato dagli spiriti contemplanti, si rivolge a Beatrice che spiega come proprio in quel grido già si possa conoscere la futura punizione divina contro gli alti prelati corrotti. Ora, aggiunge la santa, il poeta deve volgersi verso le anime illustri di quella dimensione.

Dante obbedisce e osserva cento piccole sfere che si illuminano reciprocamente diventando sempre più belle. La più grande e la più raggiante di quelle si fa avanti per soddisfare il suo desiderio di conoscerla. Il beato rivela di essere colui (san Benedetto) che ha portato per la prima volta il nome di Cristo sulla pendice del monte su cui sorge Cassino, fino allora frequentato da pagani e di aver convertito i paesi circostanti alla fede in Dio. I globi luminosi che Dante può vedere intorno a lui sono uomini contemplanti e confratelli benedettini che vissero nei chiostri e mantennero la loro fedeltà alla sua regola.

Dante chiede ora se può ricevere tanta grazia da vederlo nelle sue sembianze umane, fuori da tanta luce. San Benedetto risponde che questo suo volere sarà soddisfatto solo nell’Empireo, ultimo cielo, dove si realizzano tutti i desideri, compresi i suoi. Nell’Empireo ogni desiderio infatti è compiuto, maturo e senza difetto. E all’Empireo conduce quella scala dove risplendono ora i beati ed è per questo che Dante non può scorgerne la sua fine. 

San Benedetto lancia ora un’invettiva contro coloro che seguono, in quei tempi e nel mondo, la regola del suo ordine e che mostrano di essere legati solo all’amore per i beni terreni. Le mura dei monasteri, osserva il beato, sono diventate rifugio per i ladri e il cuore dei monaci è reso avido dalle rendite ecclesiastiche. Le ricchezze della Chiesa dovrebbero appartenere alla gente che chiede la carità, non ai familiari degli ecclesiastici. In realtà, un buon proposito sulla Terra non dura che pochi anni. Il bianco si fa nero, le virtù diventano vizi. Così è accaduto per i seguaci di Pietro, così per quelli di Francesco.

San Benedetto si ricongiunge agli altri beati e si volge con loro in un unico turbine risalendo verso l’alto. Beatrice spinge Dante su per quella scala e niente sulla Terra può eguagliare in rapidità la salita del poeta che lo conduce nel cielo delle Stelle Fisse. Beatrice lo invita a volgersi in basso e a vedere quanto cammino ha percorso, in modo che il suo cuore sia colmo di gioia quando sarà di fronte alla schiera trionfante dei beati. Il poeta osserva dall’alto le sette sfere celesti appena oltrepassate e la Terra, quella aiuola che rende tanto violenti gli uomini, così piccola da farlo sorridere. Poi si volge nuovamente verso Beatrice.

Canto XXIII

Nel cielo delle Stelle Fisse: il trionfo di Cristo

Beatrice dritta e attenta, col viso ardente di luce, è rivolta verso la zona del cielo dove il sole sembra muoversi con minore rapidità, quando rivela a Dante che le schiere dei beati, redenti dal sacrificio di Cristo, si stanno avvicinando. 

Il poeta scorge, al di sopra di migliaia di splendenti beati, il sole di Cristo e, attraverso la luce, il corpo lucente di Gesù, tanto abbagliante da non poterne sostenere la vista. Beatrice invita Dante ad aprire i suoi occhi e osservare il suo bagliore: ormai il poeta ha visto cose tali da essere capace di sostenere il suo sorriso. 

La beata spiega che in quella schiera di beati è la Madonna e con lei sono gli apostoli. Dante vede innumerevoli spiriti, illuminati da raggi di luce, senza però comprendere l’origine di questi raggi e volge la sua attenzione su Maria cercando di distinguere le sue sembianze, nel mare di sublime splendore. Il poeta assiste alla discesa di una fiaccola, quella dell’arcangelo Gabriele che, intonando il suo canto a Maria con sublime voce melodiosa, si muove in cerchio intorno a lei, in forma di corona. Dante non è in grado di seguire con lo sguardo la luce di Maria che si muove con il Cristo e che con Lui si innalza verso l’Empireo, seguiti a loro volta dalle braccia, protese nell’amore, di tutti i beati. 

Canto XXIV

Nel cielo delle Stelle Fisse: il dialogo con san Pietro sulla fede

Beatrice, nel cielo delle Stelle Fisse, si rivolge ai beati, ruotanti come sfere intorno a perni fissi, invitandoli a dissetare Dante della sua immensa brama di conoscenza. Il poeta può comprendere, in quel ruotare danzando, il loro maggiore o minor grado di beatitudine, in base alla loro maggiore o minore velocità nel girare. 

Uno spirito esce da quella corona, il più luminoso di tutti, e tre volte danza intorno a Beatrice, cantando in modo divino. La beata si rivolge a lui indicandolo come colui (Pietro) cui Dio ha consegnato le chiavi del Paradiso, e lo esorta a esaminare Dante su temi più lievi e temi più importanti, per comprendere se il poeta è spinto dalla vera fede, dalla vera speranza e dalla vera carità. Dante, come uno studente, di fronte al suo insegnante, si prepara a rispondere. 

San Pietro chiede a Dante cosa sia la fede e il poeta spiega che essa è il fondamento delle cose in cui gli uomini sperano e la prova di quelle cose che a loro non sono visibili. Il santo chiede ancora perché san Paolo definì la fede come sostanza e poi come argomento. Dante replica che la fede è sostanza in quanto l’esistenza dei misteri divini è ammessa solo per fede, sopra la quale si fonda la speranza; la fede è argomento perché da essa è ammesso dedurre senza altre prove. 

San Pietro è soddisfatto delle risposte di Dante ma chiede ancora se il poeta custodisca la fede nel suo animo e da dove gli provenga. Il poeta risponde che sì, la custodisce nel suo animo e che gli proviene dalla lettura del Vecchio e Nuovo Testamento. Perché chiede ancora Pietro questi due libri possono essere considerati come sede della parola di Dio? Dante risponde che la verità di quei libri risiede nei miracoli, dei quali uno dei più grandi fu quello compiuto dallo stesso Pietro capace, senza mezzi e in povertà, di diffondere il cristianesimo tra gli uomini. Dante dichiara, di fronte a Pietro, di credere in un Dio unico ed eterno che muove tutto l’universo, attraverso la carità e l’amore, di credere nelle eterne persone della Trinità e che la fede risplende nel suo cuore come una stella. Pietro benedice il poeta e danza tre volte intorno a lui.

Canto XXV

Nel cielo delle Stelle Fisse: il dialogo con san Giacomo sulla speranza

In quel cielo e da quella corona di beati si stacca un altro spirito, san Giacomo, che viene invitato da Beatrice a celebrare con Dante la speranza. 

Il santo, rivolto a Dante, domanda in cosa consista la speranza, come abbellisce la sua mente e come si sia originata in lui. Beatrice interviene prima che il poeta possa parlare e rivela come la Chiesa non abbia alcun figlio che nutra maggiore speranza di lui e per questo gli è stato concesso di poter raggiungere il Paradiso. Il poeta dichiara a sua volta che la speranza è la salda attesa della ricompensa futura in cielo che deriva dai meriti acquisiti e dalla Grazia divina; è stato Davide, aggiunge Dante, nel suo canto in lode a Dio, che ha per primo istillato in lui quel pensiero. Giacomo chiede ora cosa la speranza promette al poeta. Questi osserva come siano le Sacre Scritture a indicare il fine cui giungono i beati e soprattutto san Giovanni che rivela come essi vestiranno bianche stole di fronte a Dio.

Un terzo spirito si unisce ora a Pietro e a Giacomo e viene presentato da Beatrice come colui (Giovanni) che nell’Ultima cena pose la testa sopra il petto di Gesù, ricevendo poi dal Cristo crocifisso l’incarico di prendere il suo posto come figlio della Madonna. Dante si sforza di guardare quel nuovo beato, avvolto nella sua luce splendente, me questi osserva che non serve abbagliarsi per vedere cose che ora non hanno senso. Giovanni spiega che il suo corpo è divenuto terra nel mondo e rimarrà così fino al giorno del giudizio. Con le vesti dell’anima e del corpo in Paradiso ci sono solo Gesù e Maria e questo il poeta deve riferire agli uomini.

Canto XXVI

Nel cielo delle Stelle Fisse: il dialogo con san Giovanni sulla carità

Dante è impaurito dalla provvisoria cecità che ha colpito i suoi occhi per aver fissato il fulgore che emana da Giovanni. Il beato chiede, mentre attende che il poeta riacquisti la vista, qual è l’origine della carità. Dante risponde che il bene che appaga questi beati è l’inizio e la fine di ogni sentimento che amore ispira con minore o maggiore intensità. Il bene, aggiunge il poeta, appena lo si comprende, subito accende l’amore, ed è tanto maggiore quanta più bontà si possiede. La mente di ciascun uomo che scorge la verità si deve indirizzare verso l’amore di carità. Attraverso la ragione e le autorità spirituali concordi con essa, il più alto amore è rivolto a Dio. Tutte le sollecitazioni, osserva Dante, che fanno volgere il cuore verso Dio hanno concorso a far sorgere in lui la virtù della carità. Egli, per la concomitanza di verità superiori come l’esistenza delle cose e di se stesso, il sacrificio di Gesù, la fede nella vita eterna, si è salvato dall’amore volto ai beni materiali e si è diretto verso il giusto amore.

Dante, i cui occhi Beatrice ha lavato ora, col suo sguardo, di ogni macchia, scorge un quarto beato, che si è aggiunto ai primi e domanda di lui. In quella luce, spiega Beatrice, vive la prima anima che Dio abbia creato, ovvero Adamo. Il poeta, che brama dal desiderio di sapere, chiede allo spirito di rispondere alla domanda che lui legge nel suo animo, ovvero quanto tempo è trascorso da quando Dio lo pose nel Paradiso Terrestre e la vera ragione dell’ira divina. Adamo spiega che la colpa commessa non fu l’aver gustato il frutto proibito ma aver oltrepassato il limite imposto da Dio. Egli è vissuto nel Limbo 4302 anni e sulla Terra per 930 anni. Adamo aggiunge che rimase nel Paradiso Terrestre sette ore complessivamente.

Canto XXVII

Dal cielo delle Stelle Fisse al Primo Mobile: il disordine della Terra visto dall’ordine del Paradiso

Nel cielo delle Stelle Fisse tutti gli spiriti intonano l’inno Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Dinanzi al poeta sfolgorano le fiaccole dei tre santi, Pietro, Giacomo, Giovanni, e quella di Adamo. Mentre ai beati il cielo impone il silenzio, Pietro si rivolge a Dante e dichiara che il papa sulla Terra ha reso il suo sepolcro come una fogna, colma di sangue e di fetore, fatto di cui si compiace Lucifero che dal Paradiso è stato gettato nell’Inferno.

A queste parole Dante vede l’intero VIII cielo farsi rosso e così Beatrice, mutando aspetto, come una donna che si ammanta di vergogna dopo aver ascoltato i peccati degli altri. Pietro prosegue dicendo che la Chiesa non fu creata per guadagnare denaro, per combattere contro altri cristiani, o per sancire privilegi, venduti e falsi. Pietro dai cieli vede pontefici che si comportano come lupi voraci, vaganti nelle terre del cristianesimo. Ma la provvidenza divina correrà presto in aiuto del mondo e Dante deve rivelare agli uomini quanto lui gli comunica.

Il poeta vede ora le anime dei beati librarsi verso l’alto dirette all’Empireo e le segue con lo sguardo fin dove gli è possibile. La virtù concessa dagli occhi di Beatrice permette poi a Dante di salire fino al nono cielo, il più veloce di tutti (Primo Mobile). Il poeta non comprende tuttavia in quale punto di quella dimensione sia entrato. Beatrice spiega che questo cielo non ha altro luogo se non la mente divina, dalla quale deriva l’amore che lo fa muovere e che dona come pioggia benefica all’universo. La luce e l’amore dell’Empireo, che può essere inteso solo da Dio, comprende il Primo Mobile come questo comprende i cieli sottostanti. Questi regolano il proprio movimento da quello del Primo Mobile. 

Beatrice si scaglia contro la cupidigia degli uomini, travolti dalle loro insane passioni. Essi nascono con la volontà di fare il bene, ma nel tempo il bene si trasforma in male. Fede e innocenza si trovano solo nei bambini; questi nascono nell’amore della madre ma quando diventano adulti, tanto è il male che li domina che vorrebbero vederla sepolta.

La beata donna aggiunge che sulla Terra non esistono governanti e per questo l’umanità ha deviato dal retto cammino. Ma presto si realizzerà un intervento del cielo che riporterà la giustizia e la virtù dove adesso esiste solo corruzione.

Canto XXVIII

Nel Primo Mobile: i nove cori angelici

Nel Primo Mobile Dante vede, riflesso negli occhi di Beatrice, un punto che irradia una luce così intensa da abbagliare i suoi occhi e, intorno a quel punto (Dio), orbita un cerchio di fuoco così veloce da superare in velocità quella del cielo più rapido di tutti. E il cerchio è circondato da altri otto cerchi, sempre più grandi, che si muovono più lentamente via via che si allontanano da quel punto luminoso. E il cerchio più luminoso è quello più vicino al punto, in quanto da esso riceve più luce di verità.

Beatrice spiega che da quel luogo di luce dipende il cielo e tutta la creazione. Il primo cerchio, quello che gli è più vicino (angeli serafini) ha un movimento più veloce per l’amore che lo induce a congiungersi con la divinità. La beata aggiunge che le sfere celesti sono più o meno ampie a seconda del maggiore o minore influsso della virtù divina diffusa nelle loro parti. Il cielo del Primo Mobile corrisponde al cerchio più esteso perché più acceso d’amore e di sapienza, in quanto governato dai serafini. A maggiore virtù corrisponde maggiore circonferenza, a minore virtù circonferenza più piccola. Il poeta, dopo le parole di Beatrice, vede risplendere la verità, prima a lui nascosta. 

I cerchi adesso rifulgono di luce nuova e ogni favilla segue il movimento del suo cerchio e le faville sono così tante che il loro numero entra nelle migliaia, mentre si levano canti di osanna di coro in coro.

La santa donna spiega ancora che i primi due cerchi sono quelli dei serafini e dei cherubini, circondati dal terzo cerchio dei troni, ponendo fine al primo gruppo di tre. Nella seconda terna ci sono gli ordini angelici delle dominazioni, delle virtù e delle potestà; nell’ultima terna, quelli dei principati, degli arcangeli e degli angeli gioiosi. Tutti contemplano con ammirazione Dio, esercitando la loro influenza sugli ordini inferiori cosicché tutti i cerchi angelici sono attirati verso Dio e attirano a sé tutti i cerchi sottostanti e il mondo stesso.

Canto XXIX

Nel cielo del Primo Mobile: la creazione e la natura degli angeli

Beatrice rimane silenziosa, fissando il punto luminoso che aveva abbagliato Dante. La donna prosegue con le sue spiegazioni, osservando come l’amore eterno di Dio si effonda in altri esseri amanti, ovvero gli angeli. Prima della creazione, Dio non rimase inerte, perché l’atto creativo non ha un prima o un dopo. La forma e la materia della creazione, assolutamente pure e unite, giunsero prive di difetti con atto immediato. Nella parte più alta dell’universo vennero poste le sostanze create con un puro atto, ovvero gli angeli; la pura potenza, che produsse il mondo sensibile, occupò la parte più bassa dell’universo; potenza e atto si unirono in un legame eterno formando i cieli.

In un tempo rapidissimo, una parte degli angeli creati si ribellarono a Dio, mentre gli altri restarono fedeli alla somma sapienza, con così grande letizia che non possono smettere di ruotare intorno a Lui, nell’atto della contemplazione. Causa della ribellione, che provocò la caduta sulla Terra, fu la superbia maledetta di Lucifero, mentre gli angeli che Dante vede in Paradiso furono così umili da riconoscere di esistere solo per la bontà di Dio e per mezzo della grazia illuminante essi possiedono salda e perfetta la volontà di obbedirgli.

Le intelligenze angeliche non distolgono la loro vista dalla mente divina, dunque non hanno necessità della memoria, dell’intelletto o della volontà. Beatrice critica le varie scuole filosofiche che sulla Terra hanno diffuso insegnamenti ambigui. Per esaltare se stessi alcuni pensatori promuovono idee false che vengono poi colpevolmente diffuse. Uno racconta che la luna si ritrasse durante la passione di Cristo e si interpose tra sole e Terra e mentì perché la luce del sole scomparve da sola. Si narrano favole cui i fedeli sono portati a credere ciecamente. Dietro tali cattivi insegnanti si nasconde il demonio ed essi si ingrassano e si arricchiscono vendendo i loro inganni (indulgenze) ai loro inconsapevoli discepoli.

Non si può dire, aggiunge Beatrice, quale numero possa esprimere la quantità delle intelligenze angeliche. La fonte di luce di Dio si irradia sugli angeli in tanti modi quanti sono le luci cui si unisce. Per questo la beatitudine negli angeli è più o meno fervente o tiepida. Gli angeli sono specchi in cui Dio si riflette, dividendo la propria immagine, pur rimanendo unitario nella propria essenza.

Canto XXX

Nell’Empireo: Il fiume di luce e la rosa dei beati

I cori degli angeli a poco a poco scompaiono dalla vista di Dante, che è spinto a rivolgere lo sguardo su Beatrice. Il poeta rivela che la sua bellezza è tale adesso da oltrepassare ogni limite, non solo umano, e di poter essere compresa solo da Dio, il suo creatore. Egli dichiara di dover rinunciare a descrivere con la poesia tanto splendore, come deve fare ogni artista quando sia giunto al limite ultimo delle sue capacità.

La beata prosegue la sua spiegazione osservando come siano adesso ascesi nell’Empireo, cielo di pura luce, luce di intelletto divino pieno di amore, del vero bene, della gioia suprema. Nell’Empireo il poeta potrà vedere le schiere degli angeli e quella dei beati, e questi nell’aspetto di anima e corpo in cui potranno essere ammirati nel giorno del Giudizio Universale.

Dante si vede fasciato da un velo di luce splendente e Beatrice spiega che l’amore divino di carità accoglie con questo saluto un’anima allo scopo di renderla capace di sostenere il suo splendore fiammeggiante. Il poeta si accorge di aver oltrepassato i confini terreni delle sue capacità visive e nessuna luce può essere per lui ora tanto abbagliante da non poterla sostenere. Dante vede uno splendore in forma di fiume d’oro che scorre tra due rive punteggiate di meravigliosi fiori primaverili. Da quel fiume escono vivide fiammelle (angeli) che entrano nei fiori per poi immergersi nuovamente nelle onde miracolose.

Beatrice spiega che il poeta deve bere un po’ di quell’acqua perché possa essere saziata dentro di lui la sua grande sete di conoscenza. E il poeta si china verso il fiume e non appena le sue ciglia vi si immergono la forma di quel fiume si trasforma da estesa nella lunghezza in circolare. I fiori e le fiammelle si offrono allo sguardo di Dante come schiere celesti di angeli e beati. Egli comprende che nell’Empireo vi è una luce che rende visibile Dio a quelle creature e che tale luce si estende in forma circolare nelle dimensioni di una infinita circonferenza. 

Il poeta in quella luce divina vede rispecchiarsi più di mille gradini che accolgono i beati che dalla Terra sono andati in cielo. Il gradino più basso riceve dentro di sé un tale splendore che fa immaginare quanto sia ampia la larghezza della schiera dei beati disposta in forma di rosa, nei petali più esterni. Il poeta riesce a contemplare interamente quella schiera di anime sante perché non esiste il vicino o il lontano nel regno di Dio. Beatrice conduce Dante in mezzo a quell’eterna rosa mostrandogli come sia grande la comunità dei beati, come sia ampia la città del Paradiso e quanti siano gli scanni destinati loro, così pieni che attendono ancora poche anime. La beata mostra al poeta un trono dove siederà Arrigo VII che indirizzerà l’Italia verso un buon governo. Ma dovrà contrastare la cupidigia del papa Clemente V che si comporterà con lui in modo ingannevole, atto per il quale la giustizia divina lo farà sprofondare nell’Inferno. 

Canto XXXI

Nell’Empireo: l’incontro con san Bernardo, l’ultima guida

Dante osserva la schiera dei beati nella forma di una candida rosa e insieme la schiera degli angeli che, volando e cantando la gloria di Dio, discende nel gran fiore, per poi risalire verso il Creatore. Il loro volto è del colore della fiamma, le loro ali sono d’oro e il resto della loro figura di un candore mai visto.

Il poeta riflette su quanta sublime meraviglia stia provando in questa divina dimensione, lui che proviene da una Firenze tanto corrotta per approdare presso una comunità così retta e pura. Scorge volti che ispirano carità e atteggiamenti ricchi di nobiltà e vorrebbe che Beatrice chiarisse un suo nuovo dubbio, ma, voltandosi, non la vede più e al suo posto compare un vecchio vestito di bianco come gli altri beati. Questi rivela che Beatrice ha concluso il suo compito di guida, e ha raggiunto nuovamente il seggio che le spetta nel terzo gradino, a partire dall’alto, nella rosa dei beati. 

Dante rivolge adesso il suo più accorato ringraziamento alla donna, che vede incoronata da un’aureola divina; Beatrice lo ha condotto sulla via della salvezza, lo ha liberato dalla servitù del peccato e gli ha permesso di vedere tutto ciò che ha visto e con lei spera di riunirsi quando la sua anima abbandonerà il corpo, al momento della morte.

Il vecchio rivela essere san Bernardo, la sua ultima guida, colui che lo condurrà alla visione di Dio. Il santo invita Dante a sollevare lo sguardo verso l’alto, verso il trono di Maria, che appare al poeta sfolgorante, circondata da mille angeli festanti, ciascuno distinto per splendore e capacità di danza. Il sorriso bellissimo della Vergine colma di letizia tutti i beati che lo contemplano e così quelli di Bernardo e quelli del poeta.

Canto XXXII

Nell’Empireo: l’ordine armonioso della candida rosa

Bernardo spiega a Dante che colei che siede ai piedi di Maria è Eva, mentre, nel terzo ordine di seggi, ha posto Rachele, sotto Eva, insieme a Beatrice, e una sotto l’altra si possono scorgere Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth; dal settimo gradino in basso si possono vedere le donne ebree che dividono in due i petali della rosa. Da una parte sono seduti i beati che hanno creduto nella venuta di Cristo, dall’altra quelli che hanno creduto in Cristo venuto. Dalla parte opposta della rosa si trova lo scanno del Battista, che affrontò le pene del deserto e il sacrificio del martirio, restando per due anni nel Limbo, e sotto di lui stanno Francesco, Benedetto e Agostino; e nei seggi sottostanti si trovano le anime dei fanciulli morti prima che avessero la scelta di fare il bene o il male.

San Bernardo intende risolvere un nuovo dubbio di Dante e rivela che in Paradiso niente è dovuto al caso e tutto è stabilito dall’eterna legge divina: nessun beato osa chiedere più di quello che ha e riceve la grazia secondo la volontà di Dio. 

Ora è il momento che Dante volga lo sguardo alla Madonna perché solo la sua bellezza può predisporlo a vedere il Cristo. Il poeta obbedisce e chiede chi sia l’angelo che con tanta gioia guarda negli occhi di Maria, così pieno d’amore che pare una fiamma infuocata. Bernardo risponde che quella divina sostanza è Gabriele, colui che recò il messaggio dell’annunciazione; egli mostra poi sul lato sinistro della Madonna, l’anima di Adamo, il progenitore degli uomini, e alla sua destra Pietro, cui Cristo affidò le chiavi del Paradiso; vicino a Pietro siede Giovanni l’evangelista che profetizzò i tempi cupi della Chiesa, e accanto ad Adamo, Mosè, e, di fronte a Pietro, sant’Anna, così felice di contemplare la figlia che da lei non distoglie gli occhi. Davanti ad Adamo siede santa Lucia colei che ha convinto Beatrice ad assistere il poeta smarrito nella selva del peccato.

Dante deve ora ottenere, rivolgendo le sue preghiere, la grazia di Maria, per poter salire con nuove forze verso Dio.

Canto XXXIII

Nell’Empireo: la visione di Dio

San Bernardo prega adesso Maria, al tempo stesso vergine e madre, figlia del suo figlio, la più umile e alta di tutte le creature, colei che ha nobilitato la natura umana, nel cui ventre rinacque l’amore tra Dio e gli uomini. A lei che il santo definisce un sole di carità e sorgente di speranza per gli uomini, luogo di misericordia e di pietà, il santo chiede di concedere al poeta di poter alzare lo sguardo verso Dio e per questo le rivolge tutte le sue orazioni.  Gli occhi della Madonna rivelano quanto gradite siano quelle parole e si volge verso il sommo Padre. Il poeta, senza essere sollecitato, già guarda verso l’alto e rivela che i suoi versi non possono ridire ciò che lui ha provato: come in un sogno, gli rimane impressa la sensazione di quell’evento miracoloso, ma nient’altro torna alla sua memoria e prega Dio di non privarlo del tutto delle sue immagini. Ricorda tuttavia di aver congiunto il suo sguardo con l’essenza infinita di Dio per un tempo indefinito. Il poeta vede, unito dall’amore di carità in un unico libro, ciò che nell’universo appare disperso, tutte le realtà e quelle da loro dipendenti e i loro rapporti come fusi insieme. 

La mente di Dante si accende sempre più del desiderio di vedere dentro quella luce perché il bene è tutto dentro di lei. Il poeta rivela che la sua capacità visiva si rafforza e l’immagine, oggetto del suo sguardo, muta. Egli vede tre cerchi di tre colori e di identica circonferenza (la Trinità), e il secondo (il Figlio) appare riflesso dal primo (il Padre), e il terzo (lo Spirito Santo) sembra fuoco alimentato dal primo e dal secondo. Dante lamenta l’insufficienza del suo linguaggio e quanto sia debole e inefficace a descrivere ciò che lui ha visto. Il cerchio che appare così generato come luce riflessa (il Figlio), dentro di sé, del suo stesso colore, mostra l’immagine dipinta di una figura umana (Incarnazione) e il poeta cerca di capire come l’immagine si unisca al cerchio che la contiene e come vi possa trovare posto. Ma le forze di Dante non gli permettono di giungere a tanto fin quando la sua mente viene colpita da un lampo folgorante: l’amore di Dio che fa ruotare il sole e tutte le altre stelle dell’universo ha ormai appagato la volontà suprema di sapere.

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