Inferno – Canto XXVI
Fatti non foste a viver come bruti
Eugenio Scalfari
Sia lode a Roberto Benigni che ha fatto riscoprir Dante – e in particolare il Dante del “Paradiso” – a molti milioni di italiani… Sia lode a Benigni perché il merito di questa felice “distrazione” è certamente suo, ma soltanto in parte. Perché il merito primo (Benigni sarà sicuramente d’accordo) è di Dante, «il ghibellin fuggiasco»: della sua poesia, del suo personaggio… Contemporaneamente sembra essersi risvegliata una voglia di leggere e di sentir leggere la poesia leopardiana e la filosofia delle Operette Morali e dello Zibaldone.
Riscoperta dei classici? Direi di certi classici e non d’altri. Non del Petrarca per esempio. Non dell’Ariosto. Ma certamente di Shakespeare, dei grandi russi dell’Ottocento, di Stendhal. Poiché non si legge e non si rilegge se non ciò che è congeniale alla contemporaneità, si è indotti a formulare a questo punto una prima osservazione e una prima domanda: perché si riprendono in mano quei classici che applicano la forza dello stile al vigore del contenuto? Nel nostro caso al contenuto etico e civile e alle grandi questioni che investono l’anima e il suo destino?
Non importa se Dante è il cantore dell’assoluto, Shakespeare della fralezza del tempo e Leopardi d’un universo nudo che poggia sul nulla le illusioni degli uomini. Tutti e tre sono animati dalla potenza delle passioni, dilacerati da contraddizioni profonde, intrisi da un’umanità che è mossa dall’ineluttabile desiderio di superare e di superarsi, quale che sia il fine ultimo di questa pulsione e fosse pure l’inesistenza del fine medesimo.
Queste letture manifestano un bisogno dei contemporanei. Ed anche le loro palesi contraddizioni con le quali è tessuta la nostra modernità. Qual è quel bisogno? Quali sono quelle contraddizioni?
Dante e la Commedia – chi appartiene alla mia generazione lo ricorderà – ci furono compagni per tutti e tre gli anni del liceo. Di questa frequentazione intellettuale che dura ancora oggi, tutta rivolta a superare la scadenza dell’esame di maturità, rimasero pochi frammenti galleggianti su molte ore di studio mnemonico.
Ma anche molte definizioni da “bignamino” e molta noia almeno per la necessità di mandare a mente la complicata architettura dei gironi infernali, di Malebolge, di Cocito ma anche dei cieli purissimi illuminati dalla fede di Bernardo, dalla misericordia della Vergine «figlia del suo figlio» e «dall’amor che muove il cielo e l’altre stelle».
I frammenti che riuscimmo senza sforzo a transitare al di là della dimenticanza post-esaminatoria furono quelli intrisi di estatica bellezza o di sovrumana audacia o di incontenibile ribellione: Capaneo, l’Ulisse che incita i compagni a «seguir virtute e conoscenza», Farinata, Francesca che rievoca il suo peccato d’amore: «Questi, che mai da me non fia diviso la bocca mi basciò tutto tremante». E poi l’incontro con Beatrice. Infine il trionfo di Maria nel XXXIII canto del Paradiso.
Pochi frammenti ma sufficienti per incidere sulla formazione della coscienza e tenere aperta la via per successive e più approfondite letture.
Scrisse il De Sanctis a conclusione del suo saggio sulla Commedia: «Dante è una delle immagini più poetiche del medioevo e più compiute. In quest’anima di fuoco si riverbera l’esistenza in tutta la sua ampiezza, da ciò che vi è di più intellettuale a ciò che vi è di più concreto. Quest’uomo andando nell’altro mondo si porta appresso tutta la terra».
Ecco il tratto che lo rende moderno e contemporaneo: quel suo guardare alla terra, alle sue passioni, ai suoi personaggi dal fondo dell’Inferno e dalle altezze del paradiso e, allo stesso tempo, quel suo portarsi appresso tutta la terra, Firenze, la Toscana, l’Italia, le lotte di fazione, la disputa secolare tra il papato e l’impero.
E insieme la poesia, quelle terzine sonanti come un ferro incandescente percosso sull’incudine da un gigantesco martello o dolcissime, soavi, amorose, come uscite dalla penna liutata del suo amico Cavalcanti cui aveva guardato come al maestro…
Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che si siano improvvisamente alzati in piedi molti milioni di italiani, commossi e percossi dalla lettura dantesca e pronti, da quel momento in poi, a viaggiare su una lunghezza d’onda culturale e morale diversa e superiore al livello quotidiano. Certamente non è così.
I sentimenti alti nutriti da alcuni hanno sempre convissuto con gli interessi anche più sordidi e con la volgarità più usuale vissuti da altri. Spesso accade addirittura che i due diversi livelli del vissuto siano presenti nella medesima persona. Neppure Dante, ovviamente, ne era immune.
Ricordate i due sonetti – botta e risposta – scambiati tra lui e Cecco Angiolieri? Con gli insulti più grevi e i berci più sonori, presenti in entrambi quei componimenti in rima? Ma il cibo intellettuale e poetico del quale oggi sentiamo il bisogno sta in quel respiro ampio, in quella tensione morale, in quell’andare oltre il sé, oltre la mediocrità degli egoismi, oltre la deformità dei demoni, oltre la ghiaccia della Geenna, oltre le acque solfuree dello Stige, fino a “riveder le stelle” in un cielo reso terso dopo un percorso sepolto dalla nebbia, dalle grida, dallo stridor di denti.
Continueremo a maledire e condannare i Bonturi come fa Dante che non aveva certo natura angelica, ma avremo almeno un Ulisse da affissare mentre esorta: «Fatti non foste a viver come bruti». è questa l’esortazione di cui sentiamo il bisogno, per cercare di ottemperarvi almeno qualche volta, qualche volta in più, migliorando la qualità delle nostre piccole vite. Sarebbe già molto.
Adattamento da Eugenio Scalfari
(la Repubblica, 29 dicembre 2002)